        L&rsquo;Africa ti rimane nel cuore. Ti lascia segni profondi e ricordi indelebili, da custodire per il resto dell&rsquo;esistenza. Lo sa bene Marco Aurelio Fontana, reduce dall&rsquo;esperienza all&rsquo;Africa Eco Race, Rally Raid che attraversa Marocco, Mauritania e Senegal ripercorrendo le rotte che furono della Parigi-Dakar. Una gara che il trentanovenne brianzolo ha affrontato a viso aperto, con la voglia di scrivere pagine importanti della sua carriera motociclistica dopo aver fatto incetta di titoli in bici, tra MTB e Ciclocross. Fino a conquistare una storica medaglia di bronzo ai Giochi olimpici di Londra nel 2012. Anche in quel caso, nel Fuoristrada, la specialit&agrave; Cross-Country. Andrea Riva, campione "per caso" | Storie Italiane Marco Aurelio Fontana, "Bronzana" anche all'Africa Eco Race  Un terzo posto ripetuto nella classe 450 dell&rsquo;Africa Eco Race (sesto assoluto nella gara vinta da Jacopo Cerutti con l&rsquo;Aprilia), destreggiandosi tra dune e pietre, con la sua Honda CRF450 Rally preparata da RS Moto Factory. &ldquo;Con la terza posizione di classe all&rsquo;Africa Eco Race ho tenuto fede al soprannome &lsquo;Bronzana&rsquo; che mi ero guadagnato dopo le Olimpiadi" ha scherzato Fontana, soddisfatto per il risultato conquistato ma soprattutto per aver vinto quella che riteneva una sfida personale. "Il mio intento non era soltanto partecipare, ma centrare un buon piazzamento. Non avevo un obiettivo dichiarato in termini di classifica, anche se speravo di rimediare meno di un&rsquo;ora al giorno dal vincitore. Ho tagliato il traguardo accusando la met&agrave; del distacco preventivato, quindi sono felice&rdquo;. La tua carriera &egrave; legata indissolubilmente ai risultati in bicicletta, ma non hai mai nascosto il tuo animo da motociclista: da dove nasce la passione per le moto? &ldquo;&Egrave; una passione che mi porto dentro grazie a mio padre e ai numeri di Motosprint letti nell&rsquo;adolescenza. Ricordo ancora quando mio padre mi portava a Monza per seguire Superbike e Formula 1: il mio cuore vibrava assieme all&rsquo;accensione dei motori nella corsia dei box. La mia prima moto fu un&rsquo;Italjet monomarcia: rimasi stregato, e da allora non mi sono pi&ugrave; fermato&rdquo;. Cosa ti ha colpito della tua prima maratona nel deserto? &ldquo;L&rsquo;Africa Eco Race &egrave; una gara difficile perch&eacute; ti porta a essere rallista 24 ore su 24, dalla colazione fino alla sera, sia in gara che fuori. Inoltre, l&rsquo;ambiente che ti circonda non &egrave; certo il pi&ugrave; ospitale: il Marocco &egrave; difficile da affrontare ma non quanto la Mauritania, dove i passaggi sono stati ancor pi&ugrave; duri visti i tanti pericoli non segnalati. Insomma, devi farti strada tra mille insidie&rdquo;. Hai affrontato 12 tappe infernali, completando oltre 6000 km: qual &egrave; stata la singola difficolt&agrave; pi&ugrave; difficile da superare? &ldquo;Dormire in tenda, in mezzo ai generatori accesi in piena notte. In pi&ugrave;, aggiungiamoci che mi sono ammalato praticamente subito: ho avuto la febbre, inconveniente che mi ha tolto parecchie ore di sonno. Gareggiare in quelle condizioni &egrave; stato un incubo perch&eacute; sudavo e avevo freddo al tempo stesso. Situazioni non paragonabili ad altre gare&rdquo;. Quanto ti ha aiutato il tuo background sportivo in un Rally Raid cos&igrave; insidioso? &ldquo;L&rsquo;esperienza pregressa mi ha sicuramente aiutato, perch&eacute; sulla sabbia, sia in bici che in moto, si viaggia a velocit&agrave; costante. Inoltre, la mia mentalit&agrave; da atleta mi ha aiutato a mantenere la concentrazione 24 ore su 24&rdquo;.  L'emozione di Fontana  Hai debuttato in Africa, ma non &egrave; stato il tuo primo Rally. &ldquo;Esatto, all&rsquo;Eco Race ci sono arrivato per gradi. Da quando ho smesso di fare il ciclista ho partecipato a diversi Rally in Sardegna e poi alla Sei Giorni di Enduro 2021 nell&rsquo;Oltrepo pavese. Tagliando il traguardo del Lago Rosa di Dakar, ho coronato un sogno che coltivavo da tempo&rdquo;. Se dovessi paragonare Mountain Bike e Rally, quali similitudini e differenze rintracceresti tra le due discipline? &ldquo;Parliamo di bici da una parte e moto dall&rsquo;altra: sono mezzi a due ruote, ma completamente diversi. Io la metto sul piano delle emozioni: il rombo della moto &egrave; qualcosa che &lsquo;senti&rsquo; nella pancia, ma indossando tuta e casco sei isolato rispetto a ci&ograve; che accade attorno a te. La bici ti permette di essere tutt&rsquo;uno con te stesso e la natura che ti circonda. In sostanza: trasmettono entrambe sensazioni di velocit&agrave;, ma non paragonabili&rdquo;. Ti sei emozionato di pi&ugrave; tagliando il traguardo delle Olimpiadi di Londra 2012 o quello del Lago Rosa? &ldquo;La differenza sembra sottile, ma &egrave; sostanziale. In bici correvo per divertirmi e vincevo per emozionarmi, mentre in moto &egrave; stato l&rsquo;esatto opposto. In Africa, ti emozioni semplicemente pensando che stai correndo nel deserto mentre la tua famiglia &egrave; a casa, sei consapevole che stai rischiando la tua vita. Ti emozioni pensando a tua moglie e ai tuoi figli che ti aspettano a casa e sperano di rivederti, mentre tu gareggi e piangi sotto al casco pensando a loro. All&rsquo;arrivo, ti emozioni perch&eacute; sei ancora vivo&rdquo;. Hai mai avuto paura? &ldquo;No. Ho pianto, ma non ho mai avuto paura durante la gara. Se ce l&rsquo;hai durante la competizione, ti blocchi e non vai pi&ugrave; avanti. Ero cosciente del pericolo, ma ho cercato di conviverci&rdquo;. Adesso sogni di correre la Dakar? &ldquo;La Dakar mi affascina, quindi il richiamo c&rsquo;&egrave;, ed &egrave; forte. Dopo questa maratona nel deserto, per&ograve;, ho deciso che non parteciperei alla Dakar soltanto per fare numero, ma lo farei soltanto con le garanzie tecniche di far bene, come all&rsquo;Eco Race. Sono molto ambizioso. Vedremo&rdquo;. Ti piacerebbe gareggiare anche nella Velocit&agrave;? &ldquo;Servirebbe tanta preparazione. Ho partecipato a sessioni nelle giornate in pista organizzate dalla Honda e da Lucio Cecchinello (patron del Team LCR impegnato in MotoGP, nde), ne ho approfittato per carpire qualche segreto di guida. Ho girato anche con Dakota Mamola, pilota professionista e figlio del grande Randy, seguendolo ho imparato tanto. Ma la Velocit&agrave; non puoi &lsquo;inventarla&rsquo;, bisognerebbe focalizzarsi su questo progetto e allenarsi tanto. Mi piacerebbe partecipare alle gare Endurance pi&ugrave; famose: la 24 Ore di Le Mans e il Bol d&rsquo;Or. Sono contesti con un fascino incredibile. Ma questo &egrave; soltanto un desiderio, per il momento&rdquo;. La straordinaria avventura di Alex Belometti | Storie Italiane       

"Un&rsquo;esperienza indimenticabile: dormire in tenda, la febbre durante la gara, i pericoli non segnalati, e l&rsquo;emozioneal traguardo per essere... ancora vivo"

Marco Aurelio Fontana è ancora "Bronzana": "Africa Eco Race, che emozione"

"La mia attivit&agrave; imprenditoriale non mi ha impedito di coltivare la passione per il Fuoristrada, nata grazie alla Parigi-Dakar"

Guerrino Zanardo, il "nonno" della Sei Giorni | Storie Italiane

L&#39;off-road regna nei primi giorni dell&#39;anno, come da costume. In particolare grazie al deserto, con l&#39;Africa Eco Race che ha fatto registrare un successo storico per l&#39;Aprilia: alla prima partecipazione con la Tuareg 660, Jacopo Cerutti si &egrave; aggiudicato il Rally Raid che si disputa sulle tracce della storica Parigi-Dakar. La corsa africana ha parlato italiano, dato che il primo rivale di Cerutti &egrave; stato Alessandro Botturi, secondo con la Yamaha.&nbsp;  Tragedia per la Dakar&nbsp;  La Dakar che si disputa in Arabia &egrave; invece in corso, con la sfida per il successo finale apertissima. L&#39;edizione &egrave; stata per&ograve; funestata dall&#39;incidente fatale allo spagnolo Carles Falc&oacute;n, che ha perso la vita a 45 anni per le conseguenze dell&#39;incidente avvenuto nel corso della seconda tappa. Falc&oacute;n, con la KTM del Team Twintrail da lui fondato, era alla seconda esperienza alla Dakar.&nbsp;    Nel Supercross americano, invece, i valori emersi nella gara d&#39;apertura ad Anaheim sono stati sovvertiti nella seconda tappa a San Francisco. Dove il campione in carica Chase Sexton si &egrave; riscattato aggiudicandosi la gara - primo successo con la KTM - davanti a Eli Tomac (Yamaha) e Ken Roczen (Suzuki). Il campione MXGP Jorge Prado ha impressionato con un ottimo settimo posto mentre Jett Lawrence, dopo il trionfo al debutto, ha chiuso nono, e ora deve inseguire Sexton (suo predecessore sulla Honda ufficiale) in campionato. 

Apri l&#39;articolo e scopri le ultime novit&agrave; della settimana!&nbsp;

Il mercato non finisce mai!&nbsp;

        &Egrave; stato un debutto incredibile in gara per l&rsquo;Aprilia Tuareg 660 preparata da GCorse e condotta magistralmente da Monaco fino a Dakar da Jacopo Cerutti. Quattro vittorie di tappa, tra cui le prime due che hanno subito indirizzato la corsa che rievoca il percorso della &ldquo;vecchia&rdquo; Parigi-Dakar. VAN BEVEREN SI PRENDE LA PRIMA 48H CHRONO DELLA DAKAR Tappa a Tarres, gara a Cerutti L&rsquo;ultima vera speciale della gara &egrave; andata al pilota Yamaha Pol Tarres che si &egrave; preso gli ultimi 247km in Mauritania davanti ad un ottimo Attilio Fert con la KTM 450 Rally Replica del team France Road Book. L'andorrano ha fatto il vuoto rifilando 7&rsquo;33&rdquo; al francese e 9&rsquo;32&rdquo; a Jacopo Cerutti con l&rsquo;Aprilia Tuareg 660 che scattato per secondo alle spalle di Alessandro Botturi lo ha recuperato e gestito cos&igrave; il vantaggio sul bresciano. Due minuti recuperati all&rsquo;ufficiale Yamaha Tenere World Raid Team che gli hanno permesso di aumentare il margine nella generale a 6&rsquo;38&rdquo;. Domani nell&rsquo;ultima giornata dell&rsquo;edizione 2024 dell&rsquo;Africa Eco Race la &ldquo;speciale&rdquo; di 15 chilometri sulle rive del Lac Rose sar&agrave; solo una passerella per Jacopo Cerutti e l&rsquo;Aprilia Tuareg 660 GCorse. Un progetto nato solo qualche mese fa con il lancio del progetto &ldquo;Road to Dakar&rdquo; che ha visto Cerutti e l&rsquo;Aprilia prima al Campionato Italiano Motorally classe G1000, riuscendo a vincere al debutto il titolo tricolore. La moto che di base resta la Aprilia Tuareg 660 che tutti gli appassionati possono comprare in concessionario &egrave; stata messa a punto e migliorata di gara in gara dall&rsquo;officina dei fratelli Guareschi che hanno gestito il team sia nell&rsquo;italiano che in questa avventura africana. Ottima prestazione anche di Francesco Montanari con la seconda Aprilia ufficiale che ha chiuso in ottava posizione la sua prima esperienza all&rsquo;Africa Eco Race.  AFRICA ECO RACE, TAPPA 10: VINCE BOTTURI, DOPPIO PODIO PER APRILIA Tanti italiani in top10 Alle spalle di Cerutti e Botturi ha terminato la gara Pol Tarres, velocissimo in diverse tappe ma poco costante e quindi pi&ugrave; attardato rispetto alla coppia italiana. Quarta piazza per Alexandre Vaudan, lo svizzero vince la classifica riservata ai 450 davanti a Attilio Fert e Marco Aurelio Fontana, al debutto nei rally africani dopo la medaglia olimpica a Londra 2012. Settimo un altro italiano, Mauro Menichini con l&rsquo;Husqvarna del Solarys Racing a precedere come detto Francesco Montanari, ultimo degli italiani in top10.  HILLIER PASSA A HONDA PER NW200 E TT, CON LA DAKAR 2025 NEL MIRINO       

L&rsquo;ultimo stage cronometrato va a Pol Tarres ma &egrave; l&rsquo;italiano con la moto di Noale a transitare vittorioso sul Lago Rosa di Dakar

Jacopo Cerutti porta l’Aprilia Tuareg 660 alla vittoria nell’Africa Eco Race

        &Egrave; iniziata con la vittoria della Aprilia Tuareg 660 numero 111, guidata magistralmente da Jacopo Cerutti la Africa Eco Race 2024. Solo 173km di speciale da Nador a Boudnib in Marocco per il primo stage della gara che ricrea il mito africano della Parigi-Dakar. KTM VS HONDA MA NON SOLO: TUTTE LE MOTO DELLA DAKAR 2024 Debutto con successo per Aprilia L&rsquo;Aprilia Tuareg 660 ha debuttato solo nella scorsa stagione nel Campionato Italiano Motorally grazie alla preparazione del team GCorse, l&rsquo;officina dei fratelli Guareschi, da anni impegnati con il Gruppo Piaggio anche per la preparazione delle Moto Guzzi V7 del trofeo Guzzi Fast Endurance. Nonostante la moto avesse pochi chilometri di test, Jacopo Cerutti &egrave; riuscito a conquistare il titolo nazionale Motorally. Poco dopo la presentazione della Tuareg 660, Aprilia ha presentato il progetto &ldquo;Back to Africa&rdquo; un nome che lasciava poco all&rsquo;interpretazione e che ovviamente coinvolgeva il pilota lombardo con l&rsquo;obiettivo finale di tornare sulle orme della vecchia Parigi-Dakar. A pochi mesi dal lancio del progetto e nella prima giornata di gare in Africa dopo la presentazione a Montecarlo come da tradizione della &ldquo;vecchia&rdquo; Dakar, Cerutti e la sua Tuareg 660 hanno comandato praticamente tutta la speciale, 173km sui 598km che i piloti hanno dovuto percorrere in questo primo giorno africano. Alle sue spalle due dei favoriti della vigilia: Alessandro Botturi, gi&agrave; vincitore dell&rsquo;Africa Eco Race nel 2020 staccato di 1'47 e Pol Tarres arrivato a 3" dal "Bottu" entrambi su Yamaha Tenere 700. Jacopo Cerutti ha commentato cos&igrave; la prima giornata: &ldquo;&Egrave; molto bello iniziare questa avventura davanti a tutti e come avevo detto alla vigilia, speravo di poter primeggiare in qualche tappa. Riuscirci subito ci d&agrave; una grande carica in vista dei prossimi giorni di gara&rdquo;. Ottima prestazione anche di Francesco Montanari, alla sua prima esperienza nel deserto che ha chiuso la prima tappa in undicesima posizione a 15&rsquo;24&rdquo; dal compagno di squadra.  DAKAR, LUCIANO BENAVIDES: &ldquo;MIO FRATELLO HA VINTO DUE VOLTE, ORA TOCCA A ME&rdquo;       

Debutto migliore non poteva esserci per la casa di Noale nella classica africana, il pilota lombardo ha chiuso la prima giornata al comando

Africa Eco Race: Aprilia centra il successo nel primo stage con Jacopo Cerutti

        Mancano ormai soltanto pochi giorni all'inizio della quindicesima edizione dell'Africa Eco Race, Rally Raid diventato ormai tra i pi&ugrave; celebri al mondo grazie soprattutto al proprio percorso, che ricalca fedelmente quello delle prime Parigi-Dakar svolgendosi tra Marocco, Mauritania e Senegal fino ad arrivare all'iconico traguardo situato nei pressi del Lago Rosa. I motivi d'interesse della corsa off-road che partir&agrave; da Monaco il 30 dicembre sono molteplici, a partire dalla presenza di squadre ufficiali tra cui Yamaha, Aprilia e addirittura Harley-Davidson. Per i colori italiani, per&ograve;, c'&egrave; anche un nome particolarmente noto anche al di fuori delle moto tra i piloti in gara: quello di Marco Aurelio Fontana, medaglia di bronzo tra le mountain bike ai Giochi Olimpici di Londra 2012. Il ritorno in gara di Ruben Xaus, pronto per il King of the Baggers Fontana pronto per l'Africa Eco Race  Medaglia olimpica, campione europeo e tre volte campione del mondo di mountain bike, Fontana &egrave; anche un grande appassionato di moto e si &egrave; gi&agrave; cimentato in alcune avventure a due ruote, tra cui la Sei Giorni di Enduro. Questa volta, per&ograve;, la sfida sar&agrave; particolarmente dura ed affascinante visto che si tratter&agrave; del suo primo Rally Raid di caratura internazionale che lo vedr&agrave; impegnato per circa due settimane tra le complesse dune africane. &ldquo;Ho pensato al giallo per ricordare le prime Honda che hanno corso alla Dakar, il cui logo era di questo colore, mantenendo il rosso della Casa madre e togliendo il blu che mi avrebbe reso troppo ufficiale&rdquo;, ha spiegato Marco Aurelio mostrando la sua CRF450 Rally. &ldquo;Non sar&ograve; un pilota ufficiale, ma un Privato Elegante. Correr&ograve; con il numero 144 e il team Honda Genuine Oil. Sono gasato, carico e concentrato&rdquo;. CIV SSP: Leonardo Carnevali con Improve-Firenze Motor nel 2024       

Medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici di Londra 2012 con la mountain bike, il lombardo correr&agrave; il Rally Raid africano in sella ad una Honda CRF450 Rally

Dalle Olimpiadi ai Rally: Marco Aurelio Fontana al via della Africa Eco Race

        Il sogno si sta per realizzare, Gioele Meoni prender&agrave; parte alla Dakar 2024, la conferma dell&rsquo;iscrizione &egrave; arrivata poche ore fa come comunicato dallo stesso ragazzo toscano sui propri social. Un sogno che ha rischiato di naufragare al Rally del Marocco dove &egrave; stato costretto al ritiro da una caduta ad un solo giorno dal traguardo finale. MOTOCROSS: IL PRESIDENTE COPIOLI DA IL BENVENUTO A DUCATI Dakar4Dakar Gioele Meoni &egrave; figlio del compianto Fabrizio, due volte vincitore della Parigi-Dakar nel 2001 e 2002 riuscendo ad imporsi il primo anno in sella alla KTM LC4 660 Rally e bissando l&rsquo;anno successivo con l&rsquo;iconica bicilindrica LC8 950 R. Gioele aveva il sogno di poter correre la gara pi&ugrave; dura del mondo insieme a suo padre che per&ograve; &egrave; stato portato via da una caduta al km 184 della speciale tra Atar e Kiffa l&rsquo;11 gennaio del 2005, quando Gioele aveva 13 anni. Il ricordo del campione di Castiglione Fiorentino &egrave; portato avanti fin dal 2007 dalla Fondazione Fabrizio Meoni Onlus, organizzazione umanitaria che porta avanti i progetti promossi in vita dallo stesso Fabrizio e che ad oggi &egrave; gi&agrave; riuscita a costruire tre scuole a Dakar permettendo di dare un adeguata istruzione ad oltre 700 bambini.  Il progetto che Gioele ha voluto portare avanti partecipando alla prossima edizione del Rally pi&ugrave; duro del mondo si chiama proprio Dakar4Dakar:&nbsp;il 32enne ha aperto un gofoundme per raccogliere i 35mila euro necessari all&rsquo;acquisto della moto una KTM 450 Rally che sar&agrave; messa a disposizione da KTM per la gara, ma che il toscano vuole poi comprare e mettere all&rsquo;asta. Tutto il ricavato sar&agrave; devoluto alla Fondazione Fabrizio Meoni Onlus. Con questo ricavato l&rsquo;obiettivo &egrave; quello di costruire una nuova scuola nella periferia di Dakar. Purtroppo il sogno di Gioele di correre la Dakar con suo pap&agrave; non sar&agrave; realizzabile ma la sua partecipazione sar&agrave; un ulteriore passo avanti nella realizzazione dei sogni e dei progetti che Fabrizio aveva iniziato in Africa prima della sua scomparsa.         

Il pilota toscano prender&agrave; parte alla gara con l&rsquo;obiettivo di terminarla e poter raccogliere fondi per costruire nuove scuole in Senegal

Rally Raid, Gioele Meoni alla Dakar 2024 nel segno di papà Fabrizio

        La cilindrata unitaria &egrave; quella di un solo cilindro. Moltiplicandola per il numero dei cilindri del motore si ottiene quella totale. Nei monocilindrici come ovvio le due si identificano. Valvole a fungo, mostri di efficienza | Officina Cilindrata, aumento graduale  A partire dagli anni Ottanta si &egrave; verificato un graduale aumento della cilindrata delle Enduro stradali monocilindriche, la cui popolarit&agrave; era iniziata verso la fine del decennio precedente con la straordinaria Yamaha XT 500. Dai motori di mezzo litro si &egrave; passati a quelli di 600 cm3 (per la casa dei tre diapason si &egrave; avuto anche un modello intermedio di 550 cm3). Il passo successivo ha visto la comparsa di motori monocilindrici di 650 cm3. Per diverso tempo &egrave; stato questo il valore limite di riferimento, superato soltanto dai modelli-record Suzuki (DR Big 750 e 800). Oggi i monocilindrici di serie pi&ugrave; grandi hanno cilindrate di 660 (Yamaha) e 690 cm3 (KTM). Non &egrave; qui fuori luogo ricordare che fino ai primi anni Sessanta in Inghilterra si potevano acquistare la Panther 120 e la Norton Big Four, monocilindriche dalla tecnica arcaica rispettivamente di 645 e di 630 cm3. Prodotte in numero modesti, erano destinate prevalentemente ad essere abbinata a un sidecar. Tornando ai modelli recenti, l&rsquo;incremento della cilindrata il pi&ugrave; delle volte &egrave; stato ottenuto aumentando l&rsquo;alesaggio (nei grossi mono Yamaha ad esempio la corsa &egrave; sempre rimasta quella della XT 500, ossia 84 mm). Altre volte per&ograve; si lavorava anche sulla corsa, impiegando un diverso albero a gomito. E poi naturalmente c&rsquo;erano i modelli che non derivavano da altri precedenti e per loro non si poteva parlare di aumenti del genere dato che erano frutto di progetti totalmente nuovi. Quando la cilindrata viene aumentata &egrave; per incrementare le prestazioni. La strada &egrave; logica ma, a pari rapporto corsa/alesaggio, se il regime di rotazione rimane invariato comporta un aumento della velocit&agrave; media del pistone (e quindi delle sollecitazioni meccaniche). Inoltre crescono le masse in moto alterno (pistone e parte della biella). L&rsquo;aumento della potenza non &egrave; comunque lineare. Ferma restando la pressione media effettiva (PME), un monocilindrico di 500 cm3 non produce un numero di cavalli doppio rispetto a un 250 (con rapporto C/D e velocit&agrave; media del pistone uguali). Dunque, se si cercano le prestazioni oltre certe cilindrate nei monocilindrici non con viene andare. Alcuni Supermono hanno superato i 700 cm3 ma non di molto. In quanto ai bellissimi monocilindrici destinati alla Parigi-Dakar e altre maratone africane, realizzati da case come la Gilera, la Yamaha e la Cagiva (il cui CRV-1 &egrave; rimasto allo stadio di prototipo), si sono fermati dalle parti di 750 cm3.  Cilindrata: i bicilindrici  Per i bicilindrici il discorso &egrave; diverso perch&eacute;, per quanto riguarda il ricorso a cilindrate molto grandi, l&rsquo;obiettivo principale &egrave; quello di fornire forti sensazioni pi&ugrave; ancora che prestazioni elevate in assoluto. I motori con le cilindrate unitarie pi&ugrave; elevate sono alcuni V-twins di fabbricazione americana o nati comunque per il mercato USA. Sopra i 900 cm3 ce ne sono pi&ugrave; di dieci, tra i quali un Kawasaki (VN 2000, nel quale ogni cilindro ha una capacit&agrave; di ben 1026 cm3), uno Yamaha (XV 1900, con cilindri da 927 cm3 ciascuno) e, unico con architettura non a V, un BMW (R 18). Gli altri sono americani: Harley e Indian, con l&rsquo;aggiunta dei motori S&amp;S. Le sigle che li contraddistinguono indicano in genere la loro cilindrata totale in pollici cubi ed &egrave; quindi facile passare a quella in centimetri cubi (basta moltiplicare per 16,387). Le pi&ugrave; note sono 114 e 117, alle quali corrispondono cilindrate di 1868 e 1917 cm3 (e quindi rispettivamente 934 e 958 cm3 per cilindro). Negli anni Ottanta alesaggi dell&rsquo;ordine di 100 mm erano considerati valori record. Poi &egrave; arrivata la Suzuki Big con i suoi 105 mm seguita dalle monocilindriche destinate alle gare &ldquo;africane&rdquo; e dalle Supermono con valori analoghi. Passa alla prossima pagina &nbsp; Cilindrata: l'importanza della corsa  L&rsquo;asticella &egrave; stata portata a 107 mm dalla Morini nel 2004 e poi a 112 e 116 mm dalle due Ducati 1199 e 1299 (presentate rispettivamente nel 2011 e 2016). In questi casi si trattava di moto di altissime prestazioni, con rapporti corsa/ alesaggio decisamente radicali. Per quanto riguarda la corsa, il record tra le moto di serie postbelliche va alla Kawasaki VN 2000 Vulcan con ben 123,2 mm (nella foto in basso). Non sono in poche le moto che di recente hanno superato i 110 mm. Alle solite Harley-Davidson e Indian si aggiungono la Yamaha XV 1900 (118 mm), la Honda VTX 1800 e la Suzuki Intruder, entrambe con 112 mm. Se il resto del motore rimane invariato (a cominciare dalla forma del pistone e dalle sue dimensioni, diametro escluso), un incremento dell&rsquo;alesaggio comporta un aumento del rapporto di compressione. Il volume della camera di combustione infatti rimane invariato, mentre aumenta quello generato dal pistone nel suo movimento da un punto morto all&rsquo;altro (ovvero la cilindrata unitaria). Lo spessore della canna del cilindro diminuisce ed &egrave; importante che non diventi troppo ridotto. Aumenti cospicui dell&rsquo;alesaggio rendono perci&ograve; necessario l&rsquo;impiego di una nuova canna. Per diversi motori nel corso degli anni sono stati realizzati kit di maggiorazione che prevedevano non soltanto un pistone di diametro maggiore ma anche una canna in ghisa da installare al posto di quella originale (previa lavorazione del cilindro), se essa era del tipo montato con interferenza. Se il cilindro originale ha la canna integrale con riporto superficiale, quest&rsquo;ultimo va asportato e poi occorre vedere quanto sono spesse le pareti della canna stessa, ovvero quanto materiale c&rsquo;&egrave;. Se &egrave; sufficiente si pu&ograve; alesare il cilindro e procedere alla applicazione di un nuovo riporto, ma in genere questa strada &egrave; percorribile soltanto in misura molto limitata. Talvolta &egrave; possibile per&ograve; procedere all&rsquo;asportazione di una considerevole quantit&agrave; di materiale seguita dal montaggio di una canna riportata (il cilindro viene cio&egrave; &ldquo;incamiciato&rdquo;). La stessa strada pu&ograve; essere intrapresa nei cilindri dotati di canna in ghisa incorporata di fusione. Una soluzione pi&ugrave; drastica &egrave; l&rsquo;impiego di un cilindro realizzato ex novo (in genere dal pieno), come &egrave; stato fatto in alcuni Supermono.  Dalla tribologia alla reologia | Officina       

La prima &egrave; quella di un solo cilindro: moltiplicandola per il numero dei cilindri, si ottiene quella complessiva

Cilindrata unitaria e totale | Officina

        Erano gli anni delle dirette RAI e Silvio Berlusconi era un poco conosciuto ai pi&ugrave; imprenditore milanese del campo immobiliare e pubblicitario. Gli anni di un Motomondiale che, gi&agrave; forte sul pubblico presente in pista, stava affacciandosi nelle case degli italiani. Era un mondo oggi che definire pionieristico, per quel che riguarda le gara in TV, sarebbe da definire quasi un eufemismo. LA CORSE SULLA RAI DI INIZIO ANNI '80 La TV di Stato passava qualche gara, non l'intero campionato. Spesso in differita e ad orari... da veri appassionati (mettiamola cos&igrave;). Quando capitava di mandarne qualcuna in diretta, spesso, date le rigidissime regole del palinsesto RAI, queste erano interrotte sul pi&ugrave; bello per far spazio al resto della programmazione. Insomma, non era il massimo della vita per chi pensava, o sperava, di gustarsi in televisione il Motomondiale. Nonostante questo, le moto iniziavano a rappresentare qualcosa su cui puntare a livello mediatico. Come detto, il pubblico gremiva le colline degli autodromi con presenze che sfioravano i 200.000 spettatori a GP. Si... in Italia. Gli eori erano, dopo l'epopea di Giacomo Agostini, i vari Virginio Ferrari, Graziano Rossi, Marco Lucchinelli o Franco Uncini. Leoni rampanti di un motomondiale che inizava a fare i conti con i cow-boys americani, come Kenny Roberts, Randy Mamola e, poco pi&ugrave; tardi, Freddie Spencer.&nbsp;Fu in quel perdiodo che sulle carene di Marco Lucchinelli prima e Franco Uncini poi apparve l'allora (poco conosciuto) marchio del biscione. Quel Canale 5 di tale Silvio Berlusconi, imprenditore gi&agrave; noto in campo immobiliare, che iniziava la sua scalata nell'etere di quella che sarebbe destinata a diventare agguerrita competitor sul fronte dell'audience, proprio di "mamma RAI".&nbsp; CON LA CINQ E CHILI con LA HONDA NSR&nbsp;  Una sponsorizzazione che non rimase un tentativo fino a se stesso: nel 1990, tramite il ramo televisivo francese, La Cinq, l'azienda di Berlusconi arriv&ograve; sulle carene della NSR 500 di Pierfrancesco Chili, gestita (non a caso) dal team francese di Serge Rosset. Presenze importanti, seppur sporadiche, in un mondo dove Berlusconi decise di scommettere fin dagli inizi della sua storia di imprenditore della televisione. Prove furono le dirette della Parigi-Dakar e trasmissioni e tema motoristico come Grand Prix.       

Ad inizio anni '80 il logo della Rete del biscione comparve sulle 500, prima di Marco Lucchinelli e poi di Uncini.&nbsp;

Quando Berlusconi "vinceva" in 500 grazie a Lucchinelli e Uncini

        Nel Medioevo furono eretti in Europa centinaia di castelli, per permettere ai feudatari di difendersi dagli attacchi provenienti dall&rsquo;esterno. Nel motociclismo, invece, i Castelli servono per andare all&rsquo;attacco, conquistando l&rsquo;intero globo. La storia di Lucio e Massimo Castelli   Lo dimostrano Lucio e Massimo Castelli, da Gorla Minore (Varese), artefici rispettivamente di 17 titoli mondiali piloti in pista e otto nel Motocross. Lucio compir&agrave; 90 anni il 30 giugno, ma &egrave; ancora lucidissimo e non si perde i raduni di Moto d&rsquo;Epoca, a cui presenzia con una delle sue MV Agusta: &ldquo;Lavoravo in officina da Mario Colombo, lui conosceva il Conte, Domenico Agusta, nel 1954 mi port&ograve; in azienda e venni assunto. Stavo in officina e quando, nel 1964, venne riaperto il Reparto Corse, Arturo Magni mi chiam&ograve; perch&eacute; mi occupassi della ciclistica. Essendo assunto, quando nel 1976 il Reparto Corse chiuse, restai alla MV, ho fatto da autista al conte Corrado fino alla pensione, nel 1989&rdquo;. Rispetto al padre, Massimo, che la settimana scorsa ha festeggiato 62 anni, ha avuto un percorso lavorativo pi&ugrave; tortuoso: &ldquo;Iniziai nel 1978 all&rsquo;Aspes come garzone, aiuto meccanico: imparavi lavando e smontando le moto, chiaramente senza responsabilit&agrave;. Dopo la pausa per il Militare, nel 1982 andai alla Cagiva, restando fino al 1991, quando Michele Rinaldi mi propose di aggregarmi a lui&rdquo;. Il cambio di casacca non fu accolto favorevolmente in famiglia: &ldquo;Pap&agrave; si arrabbi&ograve; molto perch&eacute; secondo lui la Cagiva, essendo una ditta, mi garantiva un lavoro sicuro come operaio, ma non mi andava di stare in catena di montaggio. Il Reparto Corse stava chiudendo, mi dissi &lsquo;un treno cos&igrave; non passa pi&ugrave;&rsquo; e andai da Rinaldi a Parma, per rimanerci dal 1992 al 1999. Passai al Team Freetime Yamaha Skittles di Reggio Emilia per cui correvano Yves Demaria e Pit Beirer. Dopo due anni aprii un&rsquo;officina e conobbi Giacomo Gariboldi che nel 2005 diede vita al suo team, un po&rsquo; per gioco&rdquo;. Da quell&rsquo;istante Massimo Castelli non ha pi&ugrave; cambiato casacca, diventando uno dei capisaldi della formazione di Arsago Seprio, fino a occupare il ruolo di responsabile tecnico: &ldquo;Il team fu messo insieme per aiutare i giovani: partimmo con il Regionale lombardo, poi l&rsquo;Italiano. Nel 2009 vincemmo l&rsquo;Europeo 250 con Christophe Charlier ma poco dopo la Yamaha ci abbandon&ograve;. Con un colpo di fortuna, o forse perch&eacute; siamo stati bravi, siamo stati chiamati in HRC ed &egrave; arrivato Tim Gajser, con cui abbiamo vinto cinque Mondiali: nel 2015 in MX2, nel 2016, 2019, 2020 e 2022 in MXGP&rdquo;. Oltre alle superfici di gara, anche i compiti dei due Castelli si discostano non poco come racconta Lucio: &ldquo;Io facevo il telaista, guardavo tutta la ciclistica, forcella, ammortizzatori, ruote, freni, filo del gas. Avevo un libretto che indicava ogni quanti chilometri erano obbligatorie le sostituzioni. I freni, anche se erano ancora quasi nuovi, dopo tre gare andavano cambiati. Le gomme ce le portavamo noi, erano soltanto di due tipi, da asciutto e da bagnato. A volte si restava svegli il sabato notte per sistemare la moto dopo una rottura. I motori di scorta erano quattro, due per cilindrata e durante l&rsquo;anno li ripristinavamo, mettendo a posto albero motore, pistoni, testa&rdquo;. Lucio e Massimo Castelli, dalla pista all'off-road   Vedendo il padre in azione in garage insieme allo zio Edoardo, anch&rsquo;egli dipendente Cagiva, l&rsquo;erede si &egrave; innamorato delle moto fin dalla tenera et&agrave;: &ldquo;Anch&rsquo;io come pap&agrave; cominciai come telaista, ma dopo, avendo la passione, ho imparato altre cose. Mi occupavo dei motori in Yamaha da Rinaldi e tutt&rsquo;ora &lsquo;faccio&rsquo; il motore di Gajser, sono responsabile del team a livello tecnico. Sopra di me ci sono Gariboldi, come team manager, e Marcus Freitas, che da anni &egrave; uomo HRC, il general manager che mantiene i contatti tra noi e il Giappone. Il lavoro &egrave; cambiato perch&eacute; in Cagiva dovevi montare le gomme, revisionare la forcella, facevi proprio tutto. Adesso invece c&rsquo;&egrave; chi ti porta il motore, la Pirelli fornisce le gomme, c&rsquo;&egrave; un tecnico giapponese per le sospensioni e un altro tecnico nipponico che si occupa soltanto dell&rsquo;elettronica. Lui fa la mappatura alla moto e noi inseriamo la schedina nella centralina. Anche per questo la gestione &egrave; pi&ugrave; rapida, non si lavora pi&ugrave; di notte come ai tempi della Cagiva&rdquo;. Persino l&rsquo;incidenza dell&rsquo;uomo appare agli antipodi, almeno a detta di Massimo: &ldquo;Ai tempi di pap&agrave;, le moto della 500 erano pi&ugrave; difficili da gestire e il pilota contava parecchio. Credo che nella Velocit&agrave; attuale il 70 percento lo faccia la moto, nell&rsquo;off-road le percentuali sono invertite. Le moto nel Cross si equivalgono pi&ugrave; o meno tutte, almeno considerando le ufficiali. Gajser pu&ograve; vincere ovunque, come era per Tony Cairoli. Il pilota &egrave; ancora molto pi&ugrave; importante della moto, anche se chiaramente, se guida un &lsquo;cancello&rsquo; non puoi pretendere che vinca&rdquo;. A differenza di Lucio, che ha conquistato sei titoli della 350 e 11 consecutivi della 500, dal 1964 al 1974 con Mike Hailwood (due), Giacomo Agostini (tredici) e Phil Read (gli ultimi due), il figlio ha trionfato in classi e con team differenti: &ldquo;I primi due Mondiali li ho vinti in 125 con la Cagiva, nel 1985 e nel 1986 con Pekka Vehkonen e Dave Strijbos. Con la Casa varesina ho fatto pure un anno nella Velocit&agrave;, nel 1990 con Randy Mamola, Ron Haslam e Alex Barros, e in inverno la Parigi-Dakar vinta da Edi Orioli. Nel 1992 in 250 ho conquistato il mondiale Cross con Donnie Schmit, al primo anno con Rinaldi, anche se non conoscevo nessuno e parlavo pochissimo l&rsquo;inglese&rdquo;. Un&rsquo;incombenza che il padre non ha mai avuto: &ldquo;Non parlavamo lingue straniere &ndash; conferma Lucio &ndash; ci pensava Magni, sia per confrontarsi con Hailwood e Read che per le trasferte&rdquo;. D&rsquo;altra parte lavorava per un&rsquo;azienda italiana, mentre Massimo ha a che fare con i giapponesi: &ldquo;Da un lato lavori bene perch&eacute; hai tutto ci&ograve; che serve, se ti dicono che domani arriveranno cinque motori stai sicuro che li avrai. Ma per far loro capire le cose serve tempo, il loro tempo di reazione &egrave; lungo&rdquo;. La possibilit&agrave; che la serie vincente continui con la terza generazione &egrave; per&ograve; esclusa, sentendo Massimo a cui pesano sempre di pi&ugrave; le lunghe attese in aeroporto: &ldquo;Ho un figlio che va in moto, ha passione e ha voluto provare a fare l&rsquo;aiuto meccanico. Alla fine ha scoperto che non &egrave; il suo mondo, troppi sacrifici, mentre i coetanei sono in giro a divertirsi: ha deciso di smettere e fa l&rsquo;operaio&rdquo;. Alla domanda su cosa serva per fare a lungo il meccanico in squadre cos&igrave; importanti, invece, i Castelli rispondono quasi all&rsquo;unisono, usando la stessa parola chiave: &ldquo;Se non hai passione&hellip; non ce la fai&rdquo;. Francesco Faraldo, l'inventore d'Oltremanica | Storie Italiane       

Due generazioni di pluricampioni del mondo dietro le quinte: Lucio ha trionfato 17 volte con MV Agusta, Massimo ha prevalso nell'off-road

Lucio e Massimo Castelli, i meccanici vincitutto | Storie Italiane

        La prima volta non si scorda mai, specialmente se rappresenta anche la prima assoluta per un Paese. Quarant&rsquo;anni fa Andrea Balestrieri divenne il primo motociclista italiano a concludere la Parigi-Dakar. Nelle prime due edizioni del Rally Raid pi&ugrave; celebre al Mondo, infatti, nessun nostro connazionale si era presentato al via tra le moto. Quella (S)Volta Che: l'impresa di Valerio Boni L'Italia e la Dakar  Nel 1980 ci aveva provato Dante Favaro con una Yamaha XT 500 ma era stato costretto al ritiro, cos&igrave; come Elia Andrioletti l&rsquo;anno dopo su KTM 495. Nel 1983 l&rsquo;Italia schier&ograve; addirittura sette piloti: Leandro Ceccarelli, Gianni Gagliotti, Massimiliano Valentini e Marco Folignati con le Morini, Alessandro Zanichelli, Paolo Bergamaschi e Balestrieri con le Yamaha XT 550. Su 119 motociclisti soltanto 28 giunsero a Dakar, complici 15 tappe pi&ugrave; due prologhi senza alcun giorno di riposo: 12.000 km in tutto, dall&rsquo;1 gennaio &ndash; partenza in Place de la Concorde &ndash; al 20 gennaio dopo aver attraversato Algeria, Niger, Burkina Faso (che ai tempi si chiamava Alto Volta), Costa d&rsquo;Avorio, Mali, Mauritania e Senegal. Balestrieri, parmense classe 1959 che ha fondato due societ&agrave; (Endu e MySDAM) operative nello sport amatoriale, oggi ci racconta la genesi di quella partecipazione: &ldquo;Nel 1981 avevo smesso di gareggiare nella Regolarit&agrave; per frequentare l&rsquo;universit&agrave;, Economia. Ma, stando fermo, mi venne la strana idea di partecipare alla Dakar. Con Bergamaschi e Zanichelli facemmo una gestione collegiale: due moto le comprammo e la terza ce la diede il concessionario di Parma. Per l&rsquo;assistenza, affittammo a caro prezzo un po&rsquo; di spazio sulla Mercedes di Cesare Pezzoni e Gianfranco Bonera, che erano in gara tra le auto. Avrebbero dovuto portarci una ruota o due, un ammortizzatore di ricambio e altro ancora, oltre a una borsa a testa con i nostri effetti personali. Per&ograve; le borse le lasciarono a Place de la Concorde. Anche al bivacco non li vedemmo mai tranne a Bamako, quando avevo rotto l&rsquo;ammortizzatore. Andai a dormire e la mattina mi ritrovai quello nuovo sulla moto: me l&rsquo;aveva montato Bonera di notte&rdquo;. L'avventura di Balestrieri  Non fu la sua unica disavventura: &ldquo;In una tappa lunghissima, dopo 100 km si svit&ograve; il tappo e persi tutto l&rsquo;olio del motore, per cui grippai. Qualcuno mi diede dell&rsquo;olio e io realizzai un tappo artigianale. La moto faceva un rumore stranissimo, ma arriv&ograve; ugualmente fino a Dakar, era una specie di trattore, andava con qualsiasi carburante!&rdquo;. Ma non soltanto: &ldquo;Durante la tappa da Nara a Kaedi, a causa della polvere, non vidi una pietra e anche se non andavo forte ruppi la ruota anteriore. Salii sul camion-scopa con cui feci 100 chilometri, lasciando la moto incustodita. Raggiunto un villaggio al confine tra Mali e Mauritania, notai un&rsquo;auto ferma con due ruote da moto, e mi feci vendere la ruota di una KTM con freno a disco mentre la mia aveva il tamburo. Firmai un documento per attestare che non volevo pi&ugrave; stare sul camion-scopa. Nel villaggio trovai il Prefetto che con una Land Rover mi riport&ograve; indietro alla moto. Per fortuna riuscii a montare la ruota, anche se un po&rsquo; ballava. Arrivai a fine tappa al mattino e dopo mezz&rsquo;ora ripartii per la successiva...&rdquo;. Balestrieri concluse al 24&deg; posto e fu l&rsquo;unico italiano al traguardo, inclusi i partecipanti tra auto e camion: &ldquo;Fu una Dakar durissima, la classifica era l&rsquo;ultimo dei miei problemi ma l&rsquo;obiettivo comunque lo centrai, anche se mi &egrave; dispiaciuto aver perso gli amici per strada&rdquo;. L&rsquo;anno dopo, con il settimo posto, Balestrieri fu il primo azzurro nella Top 10: &ldquo;Gi&agrave;, ma ero terzo a tre tappe dalla fine e poi finii in un canale&rdquo;. Nel 1985 venne squalificato per essere arrivato a spinta, dopo aver rotto tre motori. Si riscatt&ograve; con il terzo posto del 1986 mentre 12 mesi dopo conquist&ograve; l&rsquo;unico successo di tappa ma poi cadde, cos&igrave; come nel 1988 e 1989.  &ldquo;Ho smesso a 30 anni, tutto sommato ero ancora giovane &ndash; conclude Balestrieri &ndash; ricordo ancora l&rsquo;edizione di 40 anni fa, &egrave; stata bellissima perch&eacute;, pur avendo vissuto un sacco di vicissitudini, ho superato tutte le difficolt&agrave;. Stavo bene, sebbene dormissi sotto le stelle nel sacco a pelo che mi portavo dietro la sella...&rdquo;.       

Quarant&rsquo;anni fa, Balestrieri fu il primo motociclista italiano a tagliare il traguardo del Rally

Quella (S)Volta Che: Andrea Balestrieri, lo scopritore della Dakar

        Figlio di un concessionario di moto, il giovane Malherbe ha iniziato a correre giovanissimo, arrivando al primo titolo mondiale in 500c nel 1980, ripetendosi nel 1981 e nel 1984, terminando secondo nel 1983, 1985 e 1986, totalizzando ben 41 vittorie di Gran Premio. Ritiratosi dalle gare di motocross era passato alla Parigi Dakar, nell&rsquo;era eroica della gara africana, restando paralizzato nel 1988 a seguito di un orribile incidente.  Andr&eacute; Malherbe con la Honda 500 precede Roger De Coster nel 1980 @P.Haudiquert Icona di stile e inguaribile ottimista  Sempre pacato e sorridente Andr&eacute; ha frequentato per diversi anni il paddock del Mondiale motocross, presenziando soprattutto le gare che si svolgevano in Belgio, dove incontrava alcuni dei suoi rivali pi&ugrave; importanti, come Dave Thorpe e il compianto Georges Job&egrave;. Icona di stile, nel massimo splendore della sua carriera usava arrivare nel paddock con una Ferrari rossa, indossando il mitico logo Hollywood sui pantaloni della divisa. Il suo ritorno nel paddock da tetraplegico coincise con la conquista del titolo della 500cc. di un&rsquo;altra leggenda purtroppo scomparsa recentemente, Eric Geboers. Malherbe, nonostante fosse relegato ad una vita in sedia a rotelle, era un inguaribile ottimista e non si tirava mai indietro davanti ad una chiacchierata con gli appassionati di turno che andavano a salutarlo. Le sue battaglie con Hakan Carlqvst e Dave Thorpe resteranno tra le pagine pi&ugrave; emozionanti di questo sport.  Nle paddock di Namur nel 1989, un anno dopo l'incidente. Sulla pista belga aveva vinto il primo GP in 500 @P.Haudiquert       

Tre volte campione del mondo FIM 500cc Motocross, Malherbe si &egrave; spento all'et&agrave; di sessantasei anni. Nato a Huy, in Belgio, Andr&eacute; ha conquistato il primo alloro nel 1973, vincendo il Campionato Europeo FIM 125cc di Motocross con la Zundapp, ripetendosi nel 1974.&nbsp;

Ci ha lasciati André Malherbe, leggenda del cross anni ’80

        Come definireste un pilota che una settimana dopo aver concluso una massacrante manifestazione di sei giorni, inforca una bicicletta e in 60 giorni percorre quasi 10.000 km? Tra le molteplici definizioni una sicuramente metter&agrave; d&rsquo;accordo tutti: quel pilota &egrave; determinato! Dominique Guillaume &egrave; un Trialista che ama l&rsquo;avventura e le sfide. Manubri Larghi: Covatti KO, che guaio per l'Italia del Trial Tra la Dakar e la barca a vela  L&rsquo;elvetico, sette volte campione nazionale di Trial, &egrave; nato il 6 gennaio 1968 e vive a Bassecourt, una frazione di 3492 abitanti del comune svizzero di Haute-Sorne, nel distretto di Del&eacute;mont. E nella sua cittadina ogni anno organizza una gara Indoor internazionale ed &egrave; uno dei promotori del Trial in Svizzera. Ma Dominique non &egrave; soltanto questo: &egrave; uno dei piloti con il maggior numero di partecipazioni (26!) alla Sei Giorni di Scozia, la prova di Trial pi&ugrave; impegnativa della nostra disciplina, oltre a essere stata la prima gara di Trial della storia. Nelle Highlands, Guillaume &egrave; un&rsquo;istituzione, &egrave; conosciuto e fotografato da tutti. &Egrave; un appassionato delle due ruote e di sfide in solitaria che in passato, spinto dal desiderio di avventura, aveva deciso anche di correre alla Parigi-Dakar, quando questa si svolgeva in Africa, e aveva sfidato l&rsquo;oceano in barca a vela. Quando abbiamo incontrato Dominique alle iscrizioni a Fort William, dopo aver appreso della sua storia, &egrave; stato naturale scambiarci due parole per conoscere un Trialista che dell&rsquo;avventura ha fatto uno stile di vita. Le parole di Guillaume  Dominique, per la ventiseiesima volta hai partecipato alla SSDT, a quando risale il debutto? &ldquo;Era il 1991, e da allora, considerando che la SSDT non si &egrave; svolta nel 2000, 2020 e 2021, ho saltato soltanto tre edizioni&rdquo;. Cosa ti spinge a presentarti ogni anno? &rdquo;La voglia di fare Trial, la voglia di avventura, uno stimolo per la vita di tutti i giorni!&rdquo;. Hai concluso tutte le edizioni che hai disputato? &ldquo;In un&rsquo;edizione mi sono ritirato il sabato, a mezzogiorno, quando alle zone della Pipeline (la condotta forzata simbolo della SSDT, ndr) ho rotto il motore della moto, mentre nelle altre sono sempre arrivato al traguardo&rdquo;. Qual &egrave; il segreto per completare una gara cos&igrave; lunga? &ldquo;Condizione fisica e mentale buona, preparazione del mezzo perfetta e poi rispettare la meccanica, evitando di affaticare troppo la moto sull&rsquo;asfalto, perch&eacute; la moto da Trial non &egrave; concepita per compiere lunghi tratti di questo genere, e in strada si rischia di scaldare troppo il motore&rdquo;. Altri segreti? &ldquo;La voglia di finirla e fare attenzione a tutto, giorno dopo giorno; quando la stanchezza si fa sentire non devi commettere errori che possono aumentare i problemi e aumentare l&rsquo;affaticamento&rdquo;. Il tuo miglior risultato? &ldquo;Ventitreesimo nel 1994&rdquo;. Come sono cambiate le moto dal 1991 a oggi? &ldquo;Sono molto pi&ugrave; affidabili! Mi ricordo che nelle prime edizioni cambiavo la catena e le pastiglie dei freni due, tre volte nell&rsquo;arco dei sei giorni. In questi ultimi anni, se il meteo non &egrave; troppo piovoso, riesco a finire la gara senza sostituire le pastiglie e registro la catena un paio di volte&rdquo;. E dopo la Scottish hai programmato una nuova avventura in bici che si concluder&agrave; sempre a Venezia: perch&eacute; proprio nella citt&agrave; lagunare? &ldquo;Quest&rsquo;anno, come nel 2019, percorro quasi 10.000 km in bici arrivando a Venezia, dove mi aspetta mia moglie, e subito dopo raggiunger&ograve; mia mamma che abita in provincia di Treviso&rdquo;. Come avrete capito, Dominique &egrave; un personaggio ipercinetico alla costante ricerca di avventura e che, dopo aver concluso la Scottish insieme all&rsquo;amico ed ex iridato Gilles Burgat, &egrave; ripartito per una nuova sfida che lo ha gi&agrave; portato ad attraversare Portogallo, Spagna, Francia, Liguria, Toscana, Corsica, Sardegna, Sicilia. In questi giorni sta risalendo lungo la costa Ionica e Adriatica e sicuramente lo rivedremo nel 2023 alla SSDT. Un Trialista cos&igrave; voi come lo definireste? Manubri Larghi: la prima Slide School in Italia       

L'elvetico ama le sfide: dalla Sei Giorni di Scozia al tour europeo in bici

Manubri Larghi: Dominique Guillaume, l'Indiana Jones del Trial

        Gellera era il cognome, Gilera divenne il marchio, perch&eacute; secondo il fondatore "Suonava meglio". La stessa cura &ndash; va detto &ndash; ebbe il giapponese Shojiro Ishibashi quando, nel 1931, intenzionato a dare un nome alla sua azienda produttrice di pneumatici, si accorse che Ishibashi in lingua inglese si traduceva Stone Bridge e, ritenendolo &ldquo;spigoloso&rdquo; da pronunciare, opt&ograve; per l&rsquo;inversione in &ldquo;Bridgestone&rdquo;. Polvere di Stelle: da Bianchi a Uncini, quanti campioni alle rievocazioni Tra passato, presente e futuro  E nel secondo dopoguerra un altro esempio di tale scrupolo venne da Giovanni Parrilla, che rinunci&ograve; all&rsquo;esatto cognome sul serbatoio delle sue moto sacrificando la doppia &ldquo;erre&rdquo; in nome di una pi&ugrave; scorrevole pronuncia del marchio. Giuseppe Gellera (anche il cognome mut&ograve; in Gilera dal 1939) fu dunque un precursore non soltanto nella costruzione di motociclette di ottima fattura che avrebbero contribuito a rendere mitica la &ldquo;scuola italiana&rdquo;, ma anche nel valutare l&rsquo;importanza di scelte che oggi &ndash; a distanza di un secolo &ndash; fanno parte dei &ldquo;fondamentali&rdquo; degli esperti di marketing. La Gilera ora fa parte del Gruppo Piaggio, che l&rsquo;acquist&ograve; nel 1969, quando la Marca aveva appena compiuto i sessant&rsquo;anni e il suo fondatore ottantadue. L&rsquo;azienda che ad Arcore era diventata negli anni un emblema di capacit&agrave; imprenditoriale, di modernit&agrave; e garanzia di prosperit&agrave; per centinaia di famiglie, era arrivata in quel periodo al culmine di una crisi dalla quale non era stato possibile scorgere una via d&rsquo;uscita diversa dalla vendita. Nel 1993 la Piaggio decise di trasferire la produzione Gilera a Pontedera e dell&rsquo;antica fabbrica di Arcore non rimasero che capannoni vuoti e tanta nostalgia. La storia della Gilera si concluse di fatto con quel trasferimento, ma ci&ograve; che dal 1909 a quel momento era stato scritto nel suo grande libro non si &egrave; mai cancellato. Tutt&rsquo;altro&hellip; &nbsp; Il raduno   La testimonianza di una memoria indelebile si &egrave; rinnovata nel fine settimana del 4-5 giugno ad Arcore, dove il Registro Storico Gilera, presieduto da Massimo Lucchini Gilera, ha organizzato il quinto evento quinquennale esclusivamente dedicato ai cultori della storia del Marchio lombardo. In appoggio al Registro Storico, la manifestazione ha goduto del patrocinio della Federazione Motociclistica Italiana e della stretta collaborazione del Gilera Club Arcore, del Moto Club Oscar Clemencigh di Monza e del Moto Club Carate Brianza. L&rsquo;evento ha avuto due teatri: l&rsquo;Autodromo di Monza e il parco della Villa Borromeo di Arcore. In quest&rsquo;ultima splendida sede, sabato pomeriggio il sindaco di Arcore, Maurizio Bono, pure lui affezionato gilerista, ha tagliato il nastro tricolore inaugurando la mostra all&rsquo;aperto di modelli Gilera d&rsquo;epoca e un&rsquo;interessante rassegna fotografica e di documenti illustranti, nella sala del camino del Comune di Arcore, i diversi periodi della storia gloriosa della Marca. Il modello pi&ugrave; antico presente all&rsquo;esposizione di Arcore era una Gilera 350 VL del 1922, pi&ugrave; volte messa in moto senza problemi dal suo proprietario, Nino Bigi. Questo primato gli &egrave; valso una coppa consegnatagli dal presidente della FMI Lombardia, Ivan Bidorini, mentre la coppa dell&rsquo;Autodromo di Monza &egrave; stata offerta a Roberto Mandelli, nome notissimo non soltanto fra gli appassionati gileristi, ma anche fra i cultori della Parigi-Dakar, la durissima competizione in cui alla fine degli anni Ottanta proprio Mandelli fu protagonista assieme a una Gilera RC600 di serie nella categoria Silhouette. La moto, di propriet&agrave; dell&rsquo;ex pilota che l&rsquo;ha ricomprata da un collezionista e l&rsquo;ha restaurata personalmente era una delle principali attrazioni della mostra all&rsquo;ingresso del parco di Villa Borromeo, assieme a due bolidi da Gran Premio: una 500 quattro cilindri del 1957 (l&rsquo;anno del trionfo di Libero Liberati e dell&rsquo;addio alle corse della Gilera) e la 125 bicilindrica con cui Romolo Ferri si piazz&ograve; secondo nel Mondiale 1956 e vinse il GP Germania. Mentre ad Arcore un folto pubblico ammirava le moto esposte, attorno alle quali fiorivano ricordi, aneddoti e certamente rimpianti, nel paddock dell&rsquo;Autodromo di Monza &ndash; affollatissimo in occasione dell&rsquo;annuale Monza Sport Festival &ndash; si poteva contemplare un&rsquo;esposizione collaterale in cui protagonista assoluta era la Gilera Saturno 500, la moto di tanti piloti privati nelle corse degli anni Quaranta e Cinquanta, la grande avversaria delle Norton nei duelli fra monocilindriche. La presenza delle Gilera nel paddock dell&rsquo;autodromo si &egrave; ravvivata domenica mattina, quando da Arcore &egrave; arrivato un lungo corteo di Gilera d&rsquo;epoca con in testa il sindaco Maurizio Bono, insieme a Daniela Confalonieri, che da 17 anni si occupa della segreteria e dell&rsquo;ufficio stampa del sodalizio e a Roberto Mandelli in sella alla sua RC600. &nbsp; Il percorso  Condotte dai rispettivi piloti, le veterane hanno compiuto tre giri di pista, mentre nel paddock, ferme ma con il motore rombante, le moto da corsa hanno fatto udire nuovamente la loro indimenticabile voce, all&rsquo;epoca non sacrificata dai silenziatori. I radunisti hanno poi fatto ritorno nel parco di Villa Borromeo, dove si sono svolte le numerose premiazioni. In particolare, una coppa &egrave; stata attribuita al gilerista pi&ugrave; giovane presente, Paolo Volpe, classe 2002, e una al gruppo pi&ugrave; numeroso, costituito da motociclisti olandesi. Targhe sono state assegnate, tra gli altri, allo storico meccanico del Reparto Corse Gilera, l&rsquo;arcorese Luigi Colombo (97 anni a fine giugno), e a Nello e Andrea Masetti, rispettivamente figlio e nipote del primo campione del Mondo su Gilera, Umberto Masetti. Ricordi personali: uno dei miei primi incarichi da giornalista fu intervistare la signora Ida, moglie di Giuseppe Gilera, nella sua casa di Rapallo. Un&rsquo;anziana signora, ancora ben lucida, che parlava delle antiche glorie della sua industria e disprezzava chi a suo parere l&rsquo;aveva tradita, in particolare l&rsquo;ingegner Pietro Remor, che aveva lasciato il reparto corse di Arcore per andare a costruire alla MV una 500 quattro cilindri molto simile alla Gilera. Affermava che una delle ragioni della crisi che port&ograve; alla vendita dell&rsquo;azienda fu l&rsquo;enorme dolore provato da suo marito per la prematura morte, per malattia, di Ferruccio, il giovane ingegnere loro figlio, che gli tolse ogni capacit&agrave; di reagire. Ricordo le mie frequenti visite in cerca di notizie e scoop (allora le Case non organizzavano conferenze stampa) allo stabilimento Gilera di Arcore, la cui architettura, caratteristica del tempo in cui fu costruito, era per me motivo di emozione. In una di quelle occasioni, il direttore commerciale della Gilera, Enrico Vianson, mi spieg&ograve; &ndash; con mia grande meraviglia &ndash; che ormai il passato di una grande azienda come la Gilera non contava pi&ugrave; nulla davanti alle difficili e mutanti richieste del nuovo mercato. Ricordo infine i quattro record mondiali che l&rsquo;equipe di Motosprint, tra cui il sottoscritto, conquist&ograve; a Nard&ograve; nel 1988 con la Gilera MX-1 125: 6 ore, 1000 km, 12 ore e 24 ore.    Polvere di Stelle: i fratelli Maffeis           

Alla scoperta di un weekend dedicato al Marchio capace di segnare un&rsquo;epoca

Polvere di Stelle: tra Monza e Arcore, ecco il Festival Gilera

        Gi&agrave; prima della Seconda Guerra Mondiale, BMW era fortemente legata al Motorsport. Indimenticabile la vittoria di Schorsch Meier, al Senior Tourist Trophy del 1939, con una BMW sovralimentata. Nel 1976, la Casa di Monaco conobbe importanti successi sportivi negli USA: l&rsquo;AMA Superbike Championship fu vinto dal pilota inglese Reg Pridmore, in sella alla R 90 S. Speciale BMW: 50 anni di storie e prodotti BMW nel Racing  Nello stesso anno, Steve McLaughlin sal&igrave; sul gradino pi&ugrave; alto del podio nella Daytona 200. Sempre nel 1976, Helmut D&auml;hne e Hans Otto Butenuth festeggiarono il quinto posto nel Production TT; ottennero il migliore tempo con la loro R 90 S ma a causa di un regolamento che si applica a questa categoria, furono inseriti al quinto posto in classifica, dietro a due moto da 250 cm3 e due moto da 500 cm3. La R 90 S, che debutt&ograve; come prodotto di serie nel 1973, fu costruita intorno a un motore bicilindrico e aveva una cilindrata di 898 cm3 , ottenuta aumentando l&rsquo;alesaggio della R 75 da 82 a 90 mm. Erogava 67 CV a 7000 giri/min e 76 Nm a 5500 giri/min. Il cambio a cinque marce era abbinato alla trasmissione finale a cardano. Il telaio aveva una struttura a doppia culla in acciaio, collegato al forcellone oscillante tramite ammortizzatori; la forcella era telescopica. Il cerchio anteriore era da 19&rdquo; (pneumatico 3.25); quello posteriore era da 18&rdquo; (pneumatico 4.00). Davanti, freni a disco da 260 mm &Oslash;; dietro, un tamburo da 200 mm. La storia di BMW, nella produzione di serie ma anche nel Racing, &egrave; legata al propulsore bicilindrico boxer raffreddato ad aria. La Casa di Monaco, con caparbiet&agrave;, ha sviluppato questa soluzione, che, sia dal punto di vista ingegneristico, sia visivamente, &egrave; molto diversa rispetto a quelle della concorrenza. Se nella produzione di serie ci&ograve; che &egrave; diverso pu&ograve; funzionare commercialmente anche senza l&rsquo;evidenza di un vantaggio prestazionale, nel Racing contano i risultati, che BMW ha ottenuto, differenziandosi dagli altri Costruttori. Oggi la moto pi&ugrave; sportiva della Casa tedesca &egrave; la M 1000 RR, che esiste anche grazie ai successi dei bicilindrici boxer. &nbsp; La Parigi-Dakar: R 80 GS   Per BMW, Racing non &egrave; stato solo sinonimo di Velocit&agrave;, anzi, inizialmente i colori BMW M hanno fatto il giro del mondo grazie al fuoristrada, per merito delle BMW R 80 GS ufficiali con cui Hubert Auriol e Gaston Rahier dominarono la Parigi-Dakar nei primi anni Ottanta. Nel 1981, BMW riusc&igrave; vinse il suo primo Rally africano con Auriol, che guid&ograve; la bicilindrica boxer preparata dai tedeschi della HPN. Auriol, dopo la vittoria spieg&ograve; che aveva ottenuto il successo perch&eacute; &ldquo;la moto era perfetta per questo tipo di gara; il motore &egrave; potente ma allo stesso tempo consuma poca benzina. Nel deserto, la R 80 GS &egrave; la migliore moto per correre sulle gobbe e sulle buche, senza caderci dentro&rdquo;. Nel 1983 Auriol vinse di nuovo la Parigi-Dakar, questa volta su una moto costruita a Parigi, con l&rsquo;assistenza di Herbert Schek. Il tre volte campione del mondo di motocross Gaston Rahier si un&igrave; al Team BMW nel 1984, regalando alla Casa di Monaco altri due successi (consecutivi) alla Parigi- Dakar (1984 e 1985). Il Bol d&rsquo;Or: HP2 Sport   Il 14 settembre 2008 la HP2 Sport del Team BMW Motorrad Motorsport concluse il suo programma sportivo con la vittoria di categoria al Bol d&rsquo;Or. La moto numero 71, guidata da S&eacute;bastien Le Grelle, St&eacute;phane Mertens e Brian Parriot si classific&ograve; prima nella Open Class, con circa 43 giri di vantaggio rispetto ai suoi concorrenti, Thierry Capela, Fred Notte e Pierre Solari, in sella alla Ducati, piazzatisi ventinovesimi nella classifica generale. L&rsquo;obiettivo (centrato) di BMW era confermare il potenziale sportivo della HP2 Sport (la bicilindrica boxer raffreddata ad aria pi&ugrave; performante di sempre, nella storia di BMW). In due anni e nove gare, la HP2 Sport ottenne sei vittorie di categoria, portando a termine quattro ventiquattro ore e conquistando un quinto e un sesto posto a Daytona. La Boxer Cup: R 1100 S  Si tratta di un campionato monomarca che, per cinque stagioni, dal 1999 al 2004 si &egrave; disputato in concomitanza con le prove del Motomondiale, con una prova che si correva a Daytona (nel 2003, vinta da un italiano, Roberto Panichi). Al via, in sella alla R 1100 S, molti piloti ed ex piloti famosi, tra cui Luca Cadalora e Randy Mamola. Quel campionato fu un trionfo anche del marketing, infatti, grazie alla Boxer Cup, BMW dimostr&ograve; che un bicilindrico boxer raffreddato ad aria poteva essere sinonimo di sportivit&agrave;. La Power Cup: K 1200 R   Fu l&rsquo;erede della Boxer Cup. La protagonista, K 1200 R, anche in questo caso non &egrave; stata scelta per caso. Questa volta BMW dimostr&ograve; che le sospensioni Telelever (anteriore) e Paralever (posteriore), utilizzate sulle moto da turismo, erano adatte anche all&rsquo;uso in pista, riuscendo a funzionare bene su grossa quadricilindrica in linea, in grado di erogare ben 175 CV. &nbsp; La Superstock 1000 FIM Cup: HP4   La S 1000 RR era nata per garantire elevate prestazioni alla portata di tutti ed &egrave; per questo che ha avuto sempre un ottimo successo commerciale (per diversi anni &egrave; stata tra le prime quattro BMW pi&ugrave; vendute a mondo) e nel Racing, in quelle competizioni che non prevedevano una profonda elaborazione del mezzo. Per questo motivo la S 1000 RR ha dominato a lungo la Superstock 1000 FIM Cup. Il primo successo &egrave; arrivato nel 2010, con Badovini; in quella stagione Ayrton sembrava invincibile, tanto che, dopo poche gare, i suoi avversari compresero che potevano correre puntando al massimo al secondo posto. Nel 2012 e nel 2013 fu Sylvain Barrier a dominare la categoria. Nel 2016 la S 1000 RR &egrave; stata portata al successo da Raffaele De Rosa e nel 2018 (l&rsquo;ultimo anno in cui questa categoria ha gareggiato) da Markus Reiterberger. La stagione tecnicamente pi&ugrave; interessante fu quella 2013; in quell&rsquo;anno BMW schier&ograve; la versione HP4 della S 1000 RR, caratterizzata dalle sospensioni semi attive di serie. Fino a quel momento nessuno pensava che quel tipo di tecnologia, sviluppata per l&rsquo;uso su strada, potesse essere competitiva nel Racing, invece... SBK e FIM EWC: S 1000 RR   La S 1000 RR debutt&ograve; nel 2008, lasciando tutto il mondo a bocca aperta, per merito di un motore eccezionale, che alz&ograve; drasticamente l&rsquo;asticella prestazionale nel segmento delle supersportive di serie. La S 1000 RR non rappresent&ograve; solo un successo tecnico ma anche di marketing. Fu l&rsquo;ultimo tassello di un grande puzzle, che serv&igrave; a dimostrare al mondo che il marchio tedesco non era leader solo nel settore delle moto gran turismo ma anche nel Racing. La S 1000 RR, infatti, &egrave; stata protagonista di un importante programma sportivo, all&rsquo;apice di cui, ovviamente, c&rsquo;era la Superbike. La S 1000 RR SBK debutt&ograve; nel 2009 e anche se BMW Motorrad non aveva un reparto corse con l&rsquo;esperienza di quelli dei migliori competitor italiani e giapponesi, in pochi anni divenne protagonista del campionato. La stagione migliore fu quella del 2012; con Marco Melandri in sella, la S 1000 RR ottenne sei vittorie e il ravennate conquist&ograve; il terzo posto nel mondiale, con 328,5 punti. Infine, il 5 giugno 2022, il BMW Motorrad World Endurancce, grazie alla S 1000 RR, ha conquistato la prima vittoria alla 24 Ore di SpaFrancorchamps. &nbsp; Il Tourist Trophy: S 1000 RR   Prima del 2014, l&rsquo;ultimo successo al Senior TT della BMW risaliva al lontano 1939. Il 2014... Un anno storico, sia per la Casa di Monaco, sia per Michael Dunlop, che in quella stagione, in sella alla quadricilindrica tedesca, fu inavvicinabile; nella stessa settimana, furono infatti ben tre le vittorie di Dunlop in sella alla S 1000 RR. La pi&ugrave; prestigiosa fu senza dubbio quella di sabato 7 giugno, quando sull&rsquo;Isola di Man si svolse la Senior TT, la gara pi&ugrave; importante del Tourist Trophy, con oltre settanta piloti al via, i migliori interpreti delle gare su strada. Per merito delle numerose affermazioni di Michael Dunlop e della S 1000 RR, l&rsquo;edizione del TT che si corse nel 2014 ebbe una risonanza mediatica incredibile; si parl&ograve; molto delle affermazioni di Michael Dunlop e del suo straordinario feeling con la S 1000 RR, che evidentemente aveva delle caratteristiche che ben si s       

Dal bicilindrico boxer, in tutte le sue &ldquo;declinazioni&rdquo;, al 4 cilindri in linea: un viaggio nella storia racing della Casa bavarese&nbsp;

BMW e il Motorsport: dalla R 90 S alla M 1000 RR

        BMW Motorsport GmbH, fondata nel 1972, riunisce tutte le attivit&agrave; motoristiche della Casa tedesca. Sotto questo tetto, per tanti anni ci sono state automobili tecnicamente estreme e innovative, come la BMW 3.0 CSL (Coupe Sport Light Construction). Tecnologia e originalit&agrave;  Parliamo di vetture (anche quelle che hanno corso in F1, come quella utilizzata da Nelson Piquet nel 1983), che inizialmente erano di colore blu, viola e rosso su fondo bianco e che oggi sono associate a inedite grafiche blu/blu scuro/rosso, abbinamento cromatico utilizzato come un plus sportivo (livrea Motorsport) su numerose moto, anche di estrazione turistica. Le moto di BMW hanno iniziato un viaggio verso la sportivit&agrave; dei modelli M attraverso le versioni caratterizzate dalle sigle HP (High Performance). Se oggi esiste la M 1000 RR (il primo modello M), il merito &egrave; anche della HP2 Enduro, della HP2 Megamoto, della HP2 Sport e soprattutto della HP4 Race, un meraviglioso esperimento tecnico, che rappresenta la massima espressione tecnologica di BMW. Il fascino dei modelli HP e del primo modello M arriva da lontano; dalle vittorie al Tourist Trophy, dai successi americani, dalle soddisfazioni ottenute alla Parigi-Dakar. BMW, sia nel Racing, sia nella produzione di serie, ha quasi sempre scelto soluzioni tecniche diverse rispetto a quelle della concorrenza; ha creduto in queste idee, le ha sviluppate anche quando non sembravano quelle migliori, le ha rese efficienti e vincenti, creando dei prodotti non solo differenti ma anche performanti e caratterizzati da una guidabilit&agrave; che identifica il marchio BMW. Solo un Costruttore che pu&ograve; investire molto denaro per sviluppare tecnologia &egrave; in grado di intraprendere con successo queste strade, piene di rischi (la certezza di raggiungere l&rsquo;obiettivo non &egrave; mai scontata) e di costi (quando si sviluppa qualcosa di diverso, non si pu&ograve; attingere al lavoro svolto da altri. Il bicilindrico boxer &egrave; il fulcro di questo lavoro, riassunto in queste pagine. Un antipasto da gustare prima del prossimo numero, in cui parleremo delle moto Racing. The Test: Voge Valico 600 DS, il top Made in China &nbsp; HP2 Enduro   &Egrave; stata presentata nel 2005, lasciando tutti a bocca aperta. Oggi, le moto di grossa cilindrata adatte ad affrontare il fuoristrada estremo sono molte ma all&rsquo;epoca enduro era sinonimo di monocilindriche compatte. La HP2 Enduro nasceva intorno al bicilindrico boxer raffreddato ad aria e olio della R 1200 GS; la versione HP aveva 105 CV, circa cinque cavalli in pi&ugrave; rispetto alla potenza erogata dalla cugina da turismo, che era oltre 20 kg pi&ugrave; pesante. Per la HP2 Enduro, infatti, BMW dichiarava solo 175 kg a secco. Il telaio era a traliccio in tubi d&rsquo;acciaio, all&rsquo;avantreno il Telelever era stato sostituito da una forcella a steli rovesciati e la sella, molto alta, aveva una forma che ricordava quelle delle vere moto da enduro. Niente elettronica, neppure l&rsquo;ABS, poco utile in fuoristrada. La trasmissione finale era sempre a cardano. &nbsp; HP2 Megamoto   Nel 2006 BMW allarga la gamma HP2, presentando la versione Megamoto, ancora pi&ugrave; estrema rispetto alla HP2 Enduro. La potenza del motore boxer, grazie anche allo scarico Akrapovic, sale a 113 CV, il peso dichiarato resta molto contenuto (178 kg a secco). Pur cambiando le quote ciclistiche, adatte all&rsquo;uso su strada, restano il telaio a traliccio in tubi d&rsquo;acciaio (il motore, a differenza della R 1200 GS non ha funzione portante) e la forcella Marzocchi con steli rovesciati di 45 mm &Oslash;. Al retrotreno, al posto dell&rsquo;ammortizzatore ad aria, era stato utilizzato un componente &Ouml;hlins. Inedito l&rsquo;impianto frenante, studiato per l&rsquo;utilizzo sportivo: doppio disco anteriore flottante da 320 mm &Oslash; e pinze a quattro pistoncini contrapposti. Al posteriore, un disco di 265 mm &Oslash;. &nbsp; HP2 Sport   Nel 2007 BMW inizia il suo percorso di avvicinamento alla Velocit&agrave;, con la HP2 Sport (a sinistra, la versione Motorsport, presentata nel 2009), la naturale evoluzione delle versioni che, dagli anni &lsquo;90, erano state protagoniste della Boxer Cup, di cui parleremo approfonditamente nel prossimo numero. Il bicilindrico della HP2 Sport, sempre raffreddato ad aria e olio ma caratterizzato dalla testata con due alberi a camme (i propulsori delle HP2 Enduro e HP2 Megamoto avevano la distribuzione monoalbero) erogava 130&nbsp; CV a 8750 giri/min e 115 Nm a 6000 giri/min ed era in grado di raggiungere i 9500&nbsp; giri/min. Per la HP2 Sport, BMW dichiarava 178 kg a secco. La moto, di serie, era equipaggiata con il cambio servoassistito e con l&rsquo;ABS, disinseribile. All&rsquo;avantreno torna la sospensione Telelever. L&rsquo;impianto frenante &egrave; da Superbike. &nbsp; HP4 Race   Presentata nel 2017 (750 esemplari prodotti), ancora oggi rappresenta la massima espressione tecnologica di BMW Motorrad (e non solo), perch&eacute; equipaggiata con un telaio doppio trave in carbonio di produzione industriale, telaio reggisella autoportante e ruote in carbonio. La potenza massima era di 215 CV a 13.900 giri/min; la coppia massima era di 120 Nm a 10.000 giri/min. Rispetto al propulsore della S 1000 RR, la rotazione massima era passata da 14.200 giri/min a 14.500 giri/min. Aveva un&rsquo;elettronica evolutissima, che non aveva nulla da invidiare a quelle utilizzate sulle Superbike da gara. Il dato pi&ugrave; impressionante era il peso (dichiarati solo 146 kg a secco), che si traduceva in una maneggevolezza difficilmente descrivibile con le parole... &nbsp; M 1000 RR   &Egrave; la prima versione caratterizzata dalla sigla M, che non poteva non essere abbinata a una Superbike, equipaggiata con uno dei migliori motori di serie degli ultimi quindici anni. Il quattro cilindri in linea della M 1000 RR eroga 212 CV a 14.500 giri/min e 113 Nm 11.000 giri/min. Il regime massimo di rotazione (15.100 giri/min) &egrave; superiore anche rispetto a quello della HP4 Race. Il telaio non &egrave; in carbonio (le ruote invece s&igrave;) ma la rigidezza della struttura doppio trave in alluminio &egrave; stata messa a punto per l&rsquo;uso Racing. Sulla M 1000 RR debutta un pacchetto aerodinamico sviluppato per incrementare la stabilit&agrave; alle alte velocit&agrave; e in frenata. Come avviene nel settore auto, anche per questa moto &egrave; stato sviluppato un pacchetto di competizione M. Alcuni accessori saranno proposti anche su altri modelli, appartenenti segmenti di mercato meno sportivi. The Test: Triumph Tiger 1200, una moto "cinque in uno"       

BMW Motorsport, nata nel 1972, &egrave; sinonimo di auto performanti. Dal 2020, il marcho &ldquo;M&rdquo; &egrave; ufficialmente legato anche alle moto

Speciale BMW: 50 anni di sport e prodotti

        Quella per la moto &egrave; una passione incontrollabile e incondizionata, lo conferma Andrea Lo Cicero, apprezzato ex rugbista della Nazionale (103 presenze in maglia azzurra). Un amore viscerale nato nella sua Sicilia, ai piedi dell&rsquo;Etna, e proseguito per una carriera sportiva, passata tra Francia, Italia e Inghilterra, con il &ldquo;patto&rdquo; con i presidenti dei club in cui ha militato: Lo Cicero era infatti autorizzato a raggiungere il campo di allenamento in moto. Come ogni sportivo, la curiosit&agrave; e la voglia di spingersi sempre oltre l&rsquo;hanno portato a sognare la pista, con l&rsquo;obiettivo, un giorno, di diventare tester. MotoVip: Fabrizio Donato, dall'atletica alla pista &nbsp; Lo Cicero e i motori   Com&rsquo;&egrave; nata la tua passione per i motori? &ldquo;In Sicilia, il clima permette di girare spesso, ho iniziato con un Malaguti 50, poi il &ldquo;Si&rdquo;, quindi sono passato alle marce: Garelli e Vespa. Con il &ldquo;Si&rdquo; da ragazzi usavamo la modalit&agrave; bicicletta, salivamo sull&rsquo;Etna e facevamo a gara a chi tornava a Catania senza usare i freni. La passione l&rsquo;ho sempre avuta, le due ruote danno pi&ugrave; senso di libert&agrave; rispetto all&rsquo;auto, che magari ti protegge di pi&ugrave; ma non regala le stesse sensazioni&rdquo;. Quali moto hai in garage? &ldquo;Da poco ho finito il contratto con la BMW, da testimonial, e sono a secco di moto personali in questo senso, per&ograve; ho una K75, una R90S del 1976, un Falcone 500 Moto Guzzi dei Carabinieri, una Gilera 150 Sport e una Moto Morini 150 Sport. Prevalentemente moto d&rsquo;epoca, che mi piacciono molto, ma se dovessi trovare in futuro un&rsquo;azienda che mi sceglie come testimonial, prenderei moto pi&ugrave; moderne, anche se l&rsquo;idea di comprare un modello nuovo &egrave; ben presente&rdquo;. A quali moto sei pi&ugrave; affezionato? &ldquo;Sono appassionato di BMW, la moto del cuore &egrave; la R90S che ho comprato a Parigi: mi ha permesso di vivere la capitale francese in un modo diverso. Avere un mezzo a due ruote in una citt&agrave; del genere fa la differenza. La R90S &egrave; del 1976, il mio stesso anno di nascita, e l&rsquo;ho modificata con i ragazzi dei &ldquo;Blitz Motorcycles&rdquo;, che sono dei customizzatori, abbiamo creato un gioiellino".  Che genere di moto preferisci?  "Io adoro, anche per necessit&agrave;, vivendo in campagna, le Enduro e le Enduro da viaggio. Prendo la moto anche d&rsquo;inverno, non ho paura del freddo, sono sempre molto attrezzato. Anzi, &egrave; molto godibile, soprattutto nelle giornate di tramontana&rdquo;. Sei un viaggiatore in moto? &ldquo;Ho fatto diversi viaggi, molte volte in Francia. Quando ho smesso di giocare nel 2013 avevo un progetto che tutt&rsquo;ora vorrei realizzare, quello di attraversare la Francia da Parigi, e percorrerla scendendo a Tolosa, fino alla costa, per poi imbarcarmi per arrivare in Sardegna e poi in Sicilia, risalendo infine fino a Roma, tutto con la moto. Vorrei farlo anche per ringraziare il mondo del rugby che da nord a sud mi ha dato tanto, partendo dalla Francia, dove ho finito la mia carriera, arrivando nel posto dove invece ho iniziato. Passando per tutti quei club che magari non vedono una partita internazionale vicino casa o non hanno l&rsquo;opportunit&agrave; di incontrare un ex giocatore, secondo me per i bambini sarebbe una cosa molto ricca da vivere&rdquo;. &nbsp; La convivenza tra moto e rugby   Tornando al rugby, sei riuscito nella tua carriera a far convivere la passione per le moto con le esigenze da sportivo? &ldquo;L&rsquo;ho sempre gestito: nel mio contratto avevo fatto mettere una clausola che specificava che avrei potuto usare la moto, a differenza di molti miei colleghi. &Egrave; stata una responsabilit&agrave; di ogni presidente che ha accolto la mia, di responsabilit&agrave;. &Egrave; vero che ci sono dei rischi, per&ograve; in citt&agrave; grandi la moto ha tanti pro, si evitano ore di traffico, &egrave; vantaggioso. A molti sportivi la moto &egrave; interdetta, per me non lo &egrave; stato, e cos&igrave; ho dato il via a questo trend, molti ragazzi mi vedevano arrivare in moto e oggi molti giocatori francesi e italiani raggiungono il campo di allenamento in moto&rdquo;. Ai livelli di professionismo nei quali hai giocato, ci sono delle affinit&agrave; tra l&rsquo;approccio mentale alla moto e l&rsquo;approccio alla partita? &ldquo;La moto va studiata, proprio come si fa con l&rsquo;avversario. Oggi i mezzi hanno un grande livello di tecnologia, che ti aiuta in parecchi momenti della guida, fino a qualche tempo fa tutto ci&ograve; non c&rsquo;era e il pilota doveva gestire tutto: carburatori, candele ecc. Perci&ograve; se si studia bene la moto anche dal punto di vista della meccanica e dell&rsquo;elettronica &egrave; possibile superare svariate problematiche. Sono attenzioni che bisogna avere anche quando si lava la moto o si prende acqua in generale: conoscendo i lavoretti da fare, si sbroglia rapidamente qualsiasi situazione. La stessa cosa con l&rsquo;avversario: conoscendolo, puoi metterlo in difficolt&agrave; e magari batterlo&rdquo;. Sei un appassionato di corse? &ldquo;Seguo sia le gare su asfalto che quelle Fuoristrada, come la Dakar. Ho visto la vittoria di tappa di Danilo Petrucci, che dalla MotoGP &egrave; passato a questo nuovo mondo ed &egrave; riuscito a vincere, &egrave; stato bellissimo. In passato molti giocatori di rugby hanno fatto la Dakar, come Christian Califano. Il primo anno disput&ograve; due tappe, l&rsquo;anno dopo quattro: ci vuole una grandissima resistenza, &egrave; massacrante, ma con un buon allenamento si pu&ograve; arrivare a compiere l&rsquo;impresa. Per chi ama la moto, il deserto e la velocit&agrave;, &egrave; bellissimo. Poi abbiamo anche Alessandro Botturi, che &egrave; un altro mito&rdquo;. &nbsp; Rossi e Cairoli  Restando in tema di piloti, sei conterraneo di Antonio Cairoli. &ldquo;Cairoli, come Valentino Rossi, &egrave; un mito e posso dire di aver conosciuto entrambi. In occasione di una mia gara in barca a vela a Valencia ho conosciuto Valentino, &egrave; un ragazzo che apprezzo molto. Con Cairoli siamo stati entrambi testimonial Land Rover e abbiamo partecipato a diversi eventi, ci siamo conosciuti e confrontati anche in relazione ai sacrifici affrontati nei rispettivi sport. Loro sono dei miti, tanto di cappello. &Egrave; stato un onore conoscerli, anche perch&eacute; in qualche maniera mi rivedo nel loro percorso, fatto di resilienza, tenacia. Nel caso di Cairoli, anche il fatto di essere del sud come me, e quindi &egrave; emersa la voglia di arrivare&rdquo;. Come Rossi e Cairoli, tu nel rugby sei stato trainante per il movimento nazionale. &ldquo;Questa responsabilit&agrave; la sento ogni volta che faccio qualcosa di pubblico, perch&eacute; sono una persona che cerca di ragionare. Quando giocavo a rugby cercavo sempre di fare la cosa giusta perch&eacute; sapevo che c&rsquo;erano dei ragazzi che mi seguivano. I giovani emulano e quindi volevo essere rispettoso verso il pubblico, gli avversari e verso me stesso. Il rugby non mi ha portato avanti come invece io ho fatto con il rugby, oggi faccio parte della commissione atleti e prover&ograve; a dare il mio supporto per valorizzare lo sport. I ragazzi devono conoscere lo sport, dev&rsquo;essere un diritto per tutti, che diventi poi professionismo, agonismo o semplice passione, perch&eacute; aiuta ad avere obiettivi e a raggiungerli; a livello educativo &egrave; fondamentale. Penso sia sempre pi&ugrave; necessario che ci sia un Ministero dello Sport con portafoglio che abbia davvero efficacia e che sia composto nella parte strutturale da ex atleti, anche per dare una possibilit&agrave; di lavoro a chi termina la carriera e ha molto da offrire. Oggi invece, dopo il ritiro ti devi reinventare&rdquo;. Si pu&ograve; dire che manca la cultura dello sport in Italia? &ldquo;Esatto, abbiamo il CONI ma sarebbe ancora meglio con un Ministero dello Sport che funzionasse realmente&rdquo;. Riesci a vivere la moto, con i tuoi impegni attuali? &ldquo;Non soltanto riesco, ma lo voglio proprio, perch&eacute; &egrave; come una terapia: una passeggiata di un&rsquo;ora in moto &egrave; bellissima. Io ci vado spesso e anche quando devo recarmi a qualche evento scelgo la moto e il percorso che, tra curve e saliscendi, mi regala pi&ugrave; emozioni. La passione per la moto &egrave; un&rsquo;opportunit&agrave;, la moto &egrave; vita&rdquo;. Viaggi a parte, qual &egrave; il sogno da motociclista che vuoi realizzare? &ldquo;Mi &egrave; sempre piaciuta l&rsquo;idea di fare il tester, per capire quanto si pu&ograve; spingere prima di trovare il limite e poi analizzare tutto. Io abito vicino Vallelunga e ogni tanto vedo qualche moto che gira, mi affascina molto&rdquo;. MotoVip, l'intervista ad Andrea Scanzi       

"Ho scoperto le moto nella mia Catania, ora sogno un tour Parigi-Roma passando per la mia Sicilia"

MotoVip, Andrea Lo Cicero: “Vi racconto la mia passione per le moto”

L&#39;Enduropale del Touquet entrerebbe di diritto nei racconti dei &quot;Mille e una Notte&quot;, in cui i partecipati alla gara non sono 1000, ma come vuole il significato in arabo, innumerevoli. Quindi, proprio come i 1200 piloti ammessi al via che prima della partenza di domenica, vivono un sabato notte di attesa, tra una birra e l&rsquo;altra o qualche bicchiere di troppo di vin br&ucirc;l&eacute;. Il dopo gara dell&rsquo;Enduropale del Touquet &egrave; invece molto simile alla &ldquo;quiete dopo la tempesta&rdquo;; la celebre poesia di Giacomo Leopardi in cui la vita riprende pi&ugrave; animata dopo un forte&nbsp;temporale come quello scatenato dai 1200 partecipanti a questa gara.    Si, perch&eacute;, dal 1975, si disputa nella cittadina di Le Touquet Paris Plage in Normandia davanti all&#39;Oceano della Manica, quella che dal 2006 &egrave; divenuto l&rsquo;Enduropale del Touquet Pas-de-Calai. Parliamo della gara di fuoristrada pi&ugrave; famosa del mondo ideata da Thierry Sabine, che prima ancora di dare vita nel 1978 alla Parigi-Dakar, lavorando da addetto stampa del comune di Le Touquet, per promuovere il turismo invernale della cittadina, organizz&ograve; il primo Enduro del Touquet essendo un grande appassionato di enduro con anche un curriculum di pilota nel mondiale rally e sport prototipi comprendente una 17 posizione alla 24 Ore di Le Mans del 1975.    La genialit&agrave; di Sabine nel creare ed organizzare eventi divenuti delle icone mondiali del motosport, hanno acquistato sempre pi&ugrave; importanza anche dopo la sua scomparsa avvenuta il 14 gennaio 1986 quando mor&igrave; a soli 36 anni, insieme a quattro passeggeri, mentre era alla guida del suo elicottero finito contro una duna del deserto del Mali, mentre controllava la sicurezza della Dakar. Annullata nel 2021 per l&#39;emergenza mondiale Covid-19, quella che sar&agrave; la 46esima edizione dell&#39;Enduropale del Touquet, salvo imprevisti, &egrave; fissata per il 25, 26, 27 febbraio ed ha gi&agrave; raggiunto il massimo di 1200 piloti ammessi al via, che per tre ore gareggeranno davanti a un pubblico che dagli anni ottanta-novanta-new millennio, ha sempre avuto un seguito di oltre 200mila spettatori. Certo, quest&#39;anno la situazione Covid-19 anche in Francia non promette nulla di buono, ma all&#39;aria aperta del percorso ad anello di 13 km lungo l&#39;immensa spiaggia di Le Touquet Paris Plage, saranno sicuramente molti gli appassionati presenti.    Perch&eacute; cos&igrave; tanto pubblico   Nella storia di tutte le gare di fuoristrada nessuna ha mai una simile partecipazione di pubblico, riconoscendo all&#39;Enduropale del Touquet la pi&ugrave; bella, incredibile ed appassionate competizione al mondo in un misto di cross-enduro. Questo perch&eacute; in Francia essere &quot;motard&quot; (cio&egrave; tradotto in italiano: motociclisti, n.d.r.) &egrave; sempre stata una filosofia di vita per chi anche in pieno inverno guida le proprie moto stradali, scooter, caff&egrave; racers, customs, motorini, ciclomotori o strani tre ruote indossando svariate giacche di pelle, jeans, stivali country, casco, guanti imbottiti.    Per tutti questi appassionati di due ruote l&#39;Enduropale del Touquet non &egrave; solo una gara bellissima da seguire, ma l&#39;occasione migliore per ritrovarsi durate il periodo invernale per una due giorni di festa vivendola insieme a gente comune e di ogni et&agrave; incuriosita dallo spettacolo di una gara unica di livello planetario in un mix di passione, interesse spettacolo e partecipazione di piloti e pubblico.    Quale possa essere il successo dell&#39;Enduropale del Touquet &egrave; facilmente intuibile se si pensa che l&#39;organizzazione per far fronte all&#39;enorme invasione di motards provenienti da tutta la Francia, ma anche da Belgio, Germania, Olanda Gran Bretagna, affida la cura del servizio d&#39;ordine all&#39;Arm&eacute;e del Terre (la fanteria dell&#39;esercito francese), comprendente circa 500 militari, a cui aggiungere 200 uomini della Gendarmerie National, un centinaio di vigili del fuoco, 5 elicotteri di pronto intervento e riprese video/foto, 300 addetti al percorso ingaggiati direttamente dal Comune di Le Touquet, uno staff dei vari settori organizzativi composto da oltre 200 persone.    Lo spirito dell&#39;Enduropale del Touquet   Quale sia lo spirito che spinge un esercito di 1200 partecipanti a prendere il via all&#39;entusiasmante gara dell&#39;Enduropale del Touquet va individuata nel semplice desiderio di gareggiare in una gara che alla fine non avr&agrave; n&eacute; vinti, n&eacute; vincitori un misto che di agonismo pure e di partecipazione decoubertiana; perch&eacute; all&#39;Enduropale del Touquet l&#39;importante &egrave; poter arrivare in fondo superando le mille difficolt&agrave; e le insidie delle dune sabbiose di questa immensa spiaggia della Normandia magari anche percorrendo un solo giro del percorso di 13 chilometri nonostante si sia piazzato dopo i primi mille che hanno tagliato il traguardo. Naturalmente ci sono anche i super piloti che affrontano l&#39;Enduropale del Touquet dopo una lunga preparazione di mesi iniziata gi&agrave; a ottobre con l&#39;obiettivo di vincere ed incassare non solo il ricco montepremi in palio, ma i lauti bonus di case e sponsor per cui gareggiano in una gara unica davanti a un pubblico inesistente in ogni altra parte del mondo, presenza media, dirette TV nazionali.  Tanti i campionissimi dell&#39;Enduropale del Touquet   Negli anni l&rsquo;Enduropale del Touquet ha scomodato campionissimi del cross tra cui Hakan Carlqvist, Kees van Der Ven, Eric Geboers, Gerard Rond, Arnaud Demeester e della Dakar come Aubert Auriol, Cyril Neveu. In tempi pi&ugrave; recenti il crossista Adrien Van Beveren vincitore tre volte, mentre Milko Potisek ha fatto sua l&#39;ultima edizione del 2020. Ad avere il record di vittorie all&#39;Enduropale del Touquet &egrave; il francese Arnaud Demeester vincitore per ben 7 volte (1995-1996-1998-2002-2005-2007-2008). 5 le affermazioni consecutive dell&#39;olandese Kees Van Der Ven (1982-1983-1984-1985-1986). 4 le vittorie del francese Jean Claude Mouss&eacute;e (1999-2004-2012-2013), mentre 3 quelle di Thierry B&eacute;thys (2000-2001-2003), di Adrien van Beveren (2014- 2015-2016) e dell&rsquo;indimenticato Eric Geboers (1988-1989-1990).  I francesi Timotei Potisek e Milko Porisek si sono invece imposti due volte ciascuno; Timotei (2006-2009), Milko (2018-2020), mentre nel 2019 si &egrave; imposto il neo pilota del Team Honda Racing RedMoto Enduro, Nathan Watson autentico specialista delle gare su sabbia vincitore nel 2021 del campionato francese su sabbia. All&#39;Enduropale del Touquet hanno partecipato in passato piloti italiani della Dakar come Ciro De Petri e Claudio Terruzzi. Della pattuglia tricolore a brillare nelle ultime edizioni &egrave; stato Maurizio Micheluz; 33&deg; all&#39;arrivo nel 2020 nonostante la frattura del malleolo del piede sinistro al primo giro, dopo avere concluso 21&deg; nel 2018 e 24&deg; nel 2017. Nelle 45 edizioni disputate dell&rsquo;Enduropale del Touquet la Yamaha ha vinto 19 volte, 13 Honda, 6 KTM, 3 Husqvarna, 1 Ossa, Maico, Kawasaki, Suzuki. 31 i successi dei piloti francesi, 6 belgi, 5 olandesi, 2 svedesi, 1 britannici.    Come si corre l&#39;Enduropale del Touquet   La gara si svolge sulla spiaggia di Le Touquet Paris-Plage e Stella Plage senza seguire il tratto delle dune che fanno parte di ambienti sensibili e siti Natura 2000 nel divieto di circolazione permanete di veicoli tra le dune e in spiaggia. Il percorso &egrave; di 13 km e comprende 3 lunghi rettilinei separati da rallentamenti da curve e chicane per ridurre la velocit&agrave; con zona assistenza riservata, per pilota, solo a due addetti ai lavori. La classifica finale viene stabilita in base al numero di giri completi completati dopo tre ore di gara, e secondo l&#39;ordine di taglio del traguardo nell&#39;ultimo giro.  Per i piloti Junior il percorso &egrave; di 3,5 km sul lungomare Touquet-Paris nella zona settentrionale ed &egrave; riservato a partecipanti dai 13 ai 17 anni, in gara per 1h30 con rifornimento. I pi&ugrave; giovani dagli 11 anni ai 15 possono partecipare alla bara sullo stesso percorso di 3,5 km degli Junior. Dal 2015 gareggia anche la categoria piloti Vingage con gara al venerd&igrave; in un round di 1 ora con rifornimento su percorso di 6,7 km.    Come &egrave; andata l&#39;ultima edizione del 2020   A vincere l&rsquo;ultima, 45esima, edizione dell&rsquo;Enduropale del Touquet disputata nel 2020, &egrave; stato Milko Potisek alla sua seconda affermazione. Alle spalle del pilota francese della Yamaha, il belga Jeremy Van Horebeek con la Honda e terzo l&rsquo;inglese Nathan Watson con la KTM vincitore anche del campionato francese su sabbia 2019/2020.  &ldquo;&Egrave; una sensazione incredibile vincere il mio secondo Enduropale del Touquet&rdquo;, dichiar&ograve; Potisek alla fine delle tre ore di gara. &ldquo;Questa &egrave; la gara su spiaggia pi&ugrave; importante del mondo, con cos&igrave; tanta storia. Vincere qui &egrave; incredibile. Ho solo cercato di rimanere sempre concentrato limitando al minimo gli errori&rdquo;.  Nathan Watson, vincitore nel 2019 ce l&rsquo;ha messa tutta ma alla fine si &egrave; dovuto accontentare della terza posizione causa una penalit&agrave; di uno stop-and-go di un minuto al via, costringendolo a una lunga riconcorsa per met&agrave; gara che lo ha purtroppo rallentato nel finale.  Enduropale del Touqet 2020 Top Ten Classifica  1. Milko Potisek (Yamaha) 15 giri 2. Jeremy Van Horebeek (Honda) +3m 26s 3. Nathan Watson (KTM) +5m 42s 4. Camille Chapeli&egrave;re (KTM) +6m 5s 5. Todd Kellett (Yamaha) +7m 55s 6. Lars Van Berkel (Husqvarna) +12m 21s 7. Richard Fura (Yamaha) +1 giro 8. Axel Van De Sande (Yamaha) +1 giro 9. Valentin Guillod (Honda) +1 giro 10. Steve Ramon (Yamaha) +1 giro    Foto credit: KTM Images -Maindr&ugrave;-Ville Touquet 

Annullata nel 2021 per l&#39;emergenza mondiale Covid-19, la che sar&agrave; 46esima edizione &egrave; fissata per il 25, 26, 27 febbraio ed ha gi&agrave; raggiunto il massimo di 1200 piloti ammessi al via

Enduropale del Touquet: la carica dei mille

        Fin da quando erano bambini Jarno e Ivan Boano sono sempre stati grandi appassionati di enduro sognando di diventare un giorno piloti per seguire le orme tracciate da pap&agrave; Roberto. S&igrave;, perch&eacute; Roberto, dopo un'intensa carriera di successi nel cross e nell&rsquo;enduro, divenne per&ograve; pi&ugrave; celebre partecipando a 5 Parigi-Dakar (quelle vere che si correvano in Africa attraverso il Sahara) sfiorando d&rsquo;un soffio nel 1991 da super privato la top ten con la propria Honda Africa Twin. Se il buon sangue non mente, i Boano Brother divenuti finalmente piloti, hanno collezionato tra il 1995 e il 2005, qualcosa come 14 Medaglie d&rsquo;Oro alla Sei Giorni, 3 Titoli Mondiali con l'Italia in Maglia Azzurra, 4 Titoli Europei, 7 Campionati Italiani e numerosi podi nelle gare tricolori e GP del Mondiale. Chiusa l&rsquo;attivit&agrave; agonistica, per dare nuova forma ai propri sogni nell&rsquo;off-road quali altri traguardi professionali potevano cercare Jarno e Ivan?  La svolta della Boano Moto  Nel mondo dell&rsquo;enduro i sogni possono trovare nuove realt&agrave; con le idee giuste, il lavoro giusto, la giusta voglia di mettersi sempre in discussione. Cos&igrave; nel 2006 i Boano Brother danno una svolta alla Boano Moto trasformando l'azienda di famiglia (nata nel 1976) da concessionaria ufficiale Honda (specializzata anche nella realizzazione di ricercatissime Africa Twin rally), in una factory per allestire moto destinate alle gare di fuoristrada, produrre e commercializzare parti speciali. Ivan si dedica alla progettazione e produzione parti speciali. Jarno, con la moglie Francesca, da vita al Team Boano collaborando fino al 2020 con Beta per passare clamorosamente nel 2021 alla TM Racing di Gastone Serafini che condivide pienamente le innovative strategie aziendali di Roberto Aloi, neo general manager della Casa pesarese.  I numeri del Team Boano  Del resto, gli affari e gli interessi legati allo sport, se non hanno anche un senso nobile, non riescono ad aggiustare ci&ograve; che pu&ograve; essersi rotto per chi ha sempre guardato al futuro lavorando a 360 gradi con il massimo dell'impegno. I numeri del Team Boano parlano da soli; dal 2014 al 2019 ha vinto ben dieci Titoli Mondiali, 3 di Team e 7 piloti con Davide Soreca (2014), Daniel McCanney (2015), Matteo Cavallo (2018), Brad Freeman (2017, 2018, 2019) quest&rsquo;ultimo vincitore anche della EnduroGP (2019). Missione compiuta? Certo perch&eacute; il bilancio 2021 del Team TM-Boano si chiude con uno strepitoso poker tricolore; tiolo assoluto vinto da Wil Ruprecht, quelli 250 4T, 250 2T, Junior vinti rispettivamente dal ritrovato Matteo Cavallo, Lorenzo Macoritto, Matteo Pavoni, quest&rsquo;ultimo anche iridato Junior.  Insomma; come ai tempi d'oro del Team KTM-Farioli, il Team TM-Boano &egrave; divenuta la squadra di riferimento nello scoprire nuovi talenti dell&rsquo;enduro dove i piloti respirano e vivono in un clima quasi monastico trovando a Caraglio nella squadra di Jarno Boano quanto di meglio si possa desiderare per crescere grazie all&rsquo;ambiente solido e a persone giuste tra cui il capo tecnico Tino Roberto Marrocco e Deny Philippaerts, quest&rsquo;ultimo nella doppia veste di direttore sportivo e pilota. Il racconto di Jarno: l'intervista  Come &egrave; nata l'idea di dare vita al Team Boano? &ldquo;Dopo aver vinto il titolo Europeo nel 1994 con l&rsquo;Husqvarna del Team CH-Racing, l&rsquo;anno dopo mi sono trovato senza moto. Cos&igrave; insieme a mio fratello Ivan, abbiamo creato una nostra squadra grazie all&rsquo;aiuto dei nostri genitori e di alcune aziende amiche di mio padre. &Egrave; stato un 1995 impegnativo perch&eacute; oltre a correre mi dovevo occupare di tutto per affrontare le gare preparando a volte anche le moto insieme a Tino Roberto Marocco che &egrave; stato il nostro primo tecnico. Poi nel 1996 siamo entrati nel Team Jolly di Franco Mayr mettendo in stand by il nostro progetto&rdquo;.  Come hai organizzato e strutturato la tua squadra negli anni? &ldquo;Il Team Boano ha ripreso vita nel 2003 muovendoci nel nostro con due furgoni e due meccanici, di cui Marrocco &egrave; sempre con noi. Nel 2005 &egrave; iniziata la collaborazione con la Beta con la squadra che si ingrandita con nuovi mezzi per supportare 3 piloti. Sono stati anni impegnativi dove io, mia moglie Francesca e Tino, abbiamo lavorato senza orari. Nel 2010 siamo divenuti Team Ufficiale a Team Supporter crescendo di anno in anno grazie anche a Costa Ligure come main partner. Sono orgoglioso di aver contribuito molto ai successi Beta sia nelle gare, sia commercialmente. Poi a met&agrave; 2020 sono stato contattato dalla TM per un progetto importante che ci ha fatto capire di aver sempre lavorato bene. Cos&igrave; dopo una riunione con Francesca, Deny Philippaerts e Tino abbiamo deciso di aderire al progetto TM Racing&rdquo;.  Ti senti pi&ugrave; talent scout o team manager? &ldquo;Ci sono due tipi di Team Manager; quelli che hanno i budget a disposizione per piloti di grido e quelli che qualcosa si devono inventare perch&eacute; il budget &egrave; risicato. Li forse &egrave; nata l&rsquo;esigenza di diventare talent scout e organizzare un sistema di lavoro diverso per essere competitivi nei confronti dei grandi Team. Quindi abbiamo messo a disposizione di piloti giovani una struttura di livello ufficiale e un programma di crescita specifico che ha permesso a dei giovani con buone motivazioni di raggiungere sia i loro, come pure i nostri obbiettivi. Essere oggi una struttura di riferimento &egrave; una grande soddisfazione&rdquo;.  Il passaggio nel 2021 alle TM 2T e 4T ha visto il Team Boano subito protagonista nella 2T e 4T. Su cosa si &egrave; principalmente concentrato il lavoro della tua squadra lo scorso inverno e quali saranno i vostri programmi per il 2022? &ldquo;Gastone Serafini, ci ha trasmesso da subito la sua fiducia e insieme abbiamo lavorato per essere competitivi fin da marzo per la prima gara degli Assoluti d&rsquo;Italia. Sapevamo che il progetto 4T era gi&agrave; competitivo e con pochi accorgimenti le 250 4T e 300 4T sono risultate performanti. La sfida &egrave; stata con i 2T dove la gestione dell&rsquo;iniezione e molto pi&ugrave; complicata. Grazie alla R&amp;D TM e ai numerosi test effettuati da Deny Philippaerts, in breve siamo risultati competitivi. Vincere subito con tutti i quattro nostri piloti con quattro moto diverse in quattro classi diverse, &egrave; stato davvero fantastico&rdquo;. Il ritorno in squadra di Matteo Cavallo nella E1 con la vittoria del titolo italiano 250 4T, l'exploit di Wil Ruprecht Tricolore Assoluto, il titolo Junior vinto da Matteo Pavoni e quello della 250 2T da Lorenzo Macoritto, hanno visto il Team Boano centrare uno straordinario poker tricolore nel 2021. Ti aspettavi questi risultati alla prima stagione con la TM?&nbsp; &ldquo;Onestamente ci speravo, e dopo aver visto i miei piloti alla prima gara, aggressivi, convinti, veloci e con voglia di riscatto, ho sognato di poterci riuscire tanto che gara dopo gara il sogno &egrave; diventato realt&agrave;. Il 2021 rimarr&agrave; nei nostri cuori per sempre; cambi tutto, ti metti in gioco, tutta la tua squadra ti segue a occhi chiusi, lavori soffri e alla fine raccogli. Ringrazio TM per averci dato questa opportunit&agrave;, tutti i suoi ragazzi e tutti i miei ragazzi per il lavoro fatto&rdquo;.&nbsp;&nbsp; &nbsp;&nbsp; Si ma il tuo fiuto nello scoprire e portare al successo tanti giovani ha fatto diventare il Team Boano una delle squadre per eccellenza anche nel Mondiale EnduroGP 2021 come formazione TM Racing Factory lasciandoti alle spalle la buona e la cattiva sorte. &ldquo;TM Racing &egrave; un&rsquo;azienda che gi&agrave; in passato aveva dimostrato di essere vincente e produrre ottime moto. La collaborazione che &egrave; nata, ha unito due famiglie caratterizzate dallo stesso DNA verso il fuoristrada per cercare di mostrare al mondo che lavorando bene si possono ottenere grandi risultati e grandi moto per gli appassionati&rdquo;.  Quale rapporto hai con i tuoi piloti perch&eacute; si dice che al team vivano a Caraglio con la squadra in un rapporto strettissimo per intensit&agrave; di programmi, allenamenti in palestra e sulle moto, relazioni di lavoro in officina con i tecnici, abitudini di vita. Insomma; moto e casa quasi fosse un hora et labora. &ldquo;Le leggende esistono ed &egrave; bello che ci siano. Cerchiamo tutti di avere una relazione aperta e collaborativa con i ragazzi, con i loro differenti caratteri e completamente opposti. La riservatezza nel dialogo con ciascuno di loro fa per&ograve; funzionare tutto al meglio&rdquo;.  Nei 15 anni di vita del Team Boano chi &egrave; il pilota che ti ha impressionato maggiormente e chi per una ragione o l'altra non ti ha invece dato le soddisfazioni sperate? &ldquo;Freeman per caparbiet&agrave; e voglia di arrivare come ha dimostrato nel 2019 al GP d&rsquo;Italia a Rovetta nonostante una clavicola fratturata. A livello sportivo sicuramente chi non ha raggiunto quello che meritava &egrave; Deny Philippaerts anche se oggi &egrave; diventato un punto di riferimento per il Team Boano e per la TM&rdquo;.  Esiste un pilota perfetto? E quale &egrave; pilota che avresti voluto sulle moto del Team Boano ma che non sei riuscito a concretizzare? &ldquo;Esistono piloti completi; oggi Freeman &egrave; uno di quelli anche se Ruprecht, Cavallo e Pavoni ci stanno lavorando. Il pilota perfetto, dopo anni di gavetta &egrave; esistito ed ho avuto anche l&rsquo;onore di correrci insieme, &egrave; esistito; Mika Ahola. Ieri, oggi e per sempre il suo logo sar&agrave; sulle nostre moto&rdquo;.  Tra i team sei stato uno dei maggior sostenitori dei cambiamenti della FIM per il futuro dell'enduro dopo le disastrose scelte del 2017 che avevano visto il Mondiale con solo due classi EnduroGP e Enduro2. &ldquo;Ho lottato in passato perch&eacute; le cose non cambiassero, ma forse non ero ancora considerato nei giusti modi. Dopo quanto successo con il Gruppo KTM abbiamo lottato per la sopravvivenza della EnduroGP e i nuovi vertici FIM, Fabio Muner e lo staff FIM, ci hanno ascoltato. Oggi siamo ritornati in piena salute con il Gruppo KTM che si &egrave; riunito a noi. Altre case importanti arriveranno a breve. Sono solo fiero di essere stato partecipe di questi cambiamenti&rdquo;.        

Dal sogno di diventare pilota come il padre Roberto, alla svolta della Boano Moto e la nascita del team Boano: Jarno ci parla del progetto sviluppato con il fratello Ivan

Jarno Boano, The Mentalist

La tradizione e la storia di Yamaha nel mondo delle corse parlano da se, una casa che &egrave; riuscita a vincere tanto ed in tutte le competizioni motoristiche. Una su tutte il motomondiale, dove ha collezionato 37 titoli mondiali costruttori tra tutte le classi, 39 titoli mondiali piloti (sorpassata la MV Agusta grazie alla vittoria di Quartararo nella passata stagione), per un totale di 514 GP vinti, seconda solo alla Honda e davanti all&#39;Aprilia. Nelle derivate di serie la storia &egrave; leggermente diversa e meno vincente, con due titoli mondiali vinti: il primo nel 2009 ed il secondo nel 2021 con Toprak Razgatlioglu, che per&ograve;, pu&ograve; aprire un ciclo vincente in sella alla sua R1.   Non c&#39;&egrave; solo l&#39;asfalto per&ograve; nella storia trionfante della casa di Iwata, protagonista anche nel fuoristrada, avendo vinto nell&#39;Enduro, nella Dakar e nel Motocross, dove con Stefan Everts e Antonio Cairoli ha segnato un&#39;epoca.&nbsp;Sono tanti i modelli che nel tempo sono diventati iconici a tal punto da entrare nel mito, come ad esempio la M1 di Valentino Rossi, o ancora, la Yamaha YZR500 OW20 di Giacomo Agostini o il Super T&eacute;n&eacute;r&eacute; con la quale Edi Orioli vinse la Dakar del 1996.  &nbsp;  Gli albori Yamaha, il primo titolo nel motomondiale: la RD56     L&#39;esordio della moto di Iwata avvenne nel 1961 in 125 e 250, mentre si dovette aspettare il 1964 per cogliere il primo iride, conquistato grazie a Phil Read che port&ograve; la RD56 in vetta nella classe 250 davanti a Jim Redman sulla Honda. La RD56 250cc a due tempi era dotata di due cilindri 56x50mm, valvole a disco e una potenza di 47 CV a 11.000 giri / min,&nbsp; mentre il telaio invece era basato su quello della Norton Featherbed. Phil Read domin&ograve; la stagione del 1964 vincendo 5 gare su 11, mostrando uno strapotere tecnico confermato anche l&#39;anno dopo.  &nbsp;  Il primo trionfo in 500, la YZR 500 OW20 e le imprese di Giacomo Agostini     La prima Yamaha a vincere nella top class fu quella di Giacomo Agostini nel 1975, stagione che consegn&ograve; al fenomeno italiano il quindicesimo titolo iridato e alla casa di Iwata l&#39;approdo tra i grandi della 500. Capendo l&#39;importanza e la maggiore efficacia che i motori a 2 tempi stavano iniziando ad avere, Agostini accett&ograve; la sfida portata avanti dalla casa giapponese che gi&agrave; da qualche anno stava provando a sottrarlo alla MV Agusta. L&#39;impatto di &quot;Ago&quot; fu vincente sin dalla prima competizione del binomio, e per l&#39;occasione, il palcoscenico fu la prestigiosa gara di Daytona, la 200 miglia. La stampa americana non perse modo per sminuire il pilota italiano definendolo troppo &quot;soft&quot; per le gare americane a favore del giovane idolo di casa e promettente, Kenny Roberts, che dal canto suo non miglior&ograve; le cose dichiarando pi&ugrave; volte la sua convinzione nel poter battere l&#39;allora 13 volte iridato.&nbsp;  Agostini per&ograve;, con il suo metodo di lavoro meticoloso e attento ad ogni dettaglio, studi&ograve; ogni cosa per poter essere performante in gara e vinse tenendo un ritmo inarrivabile per gli sia dal punto di vista tecnico che fisico. A fine gara Roberts, compagno di marca e futuro campione del mondo della 500 con Yamaha, dichiar&ograve;: &quot;Non posso credere che Agostini sia un essere umano&quot;. In sella alla sua YZR 500 OW20, Agostini vinse l&#39;anno dopo in 500 il suo ultimo mondiale davanti al rivale Phil Read, su MV Agusta.  &nbsp;  Arriva il marziano, una moto divenuta cult     Le Yamaha OW35 e OW48 furono le moto con le quali Kenny Roberts conquist&ograve; tre titoli mondiali dal 1978 al 1980. Un binomio divenuto leggenda sia per l&#39;impatto da subito vincente del fenomeno americano, che in sella alla moto di Iwata affin&ograve; lo stile di guida visto per la prima volta con Jarno Sarineen e che segn&ograve; l&#39;approccio alla moto negli anni avvenire, ovvero l&#39;esposizione del busto in curva e il ginocchio al limite dell&#39;asfalto, ma anche per la colorazione giallo e nera, entrata nella storia del motomondiale, per estetica e stile. A livello tecnico furono messe le basi che contraddistinguono ancora oggi la moto giapponese, passando da un telaio in tubi tondi di acciaio ad uno in tubi quadri di lega leggera, per cercare di avere maggiore guidabilit&agrave; ed esaltare le doti del &quot;marziano&quot;.  &nbsp;  Con Wayne Rainey l&#39;ultimo trionfo in 500&nbsp;     L&#39;ultima YZR 500 vincente per la casa giapponese &egrave; stata quella di Wayne Rainey, campione della classe regina per tre anni di fila dal 1990 al 1992. La moto, la 0WC1, diretta discendente di quella di Kenny Roberts, fu migliorata nel motore e port&ograve; novit&agrave; tecniche rilevanti come i dischi in carbonio, ma anche un primo accenno di telemetria;&nbsp;tutti fattori che contribuirono a renderla il riferimento della classe. I tecnici Yamaha cercarono di ottenere un bilanciamento migliore tra telaio e motore, con quest&#39;ultimo che fu portato a 170cv, conservando una ciclistica che permetteva al pilota americano di esprimersi al meglio attraverso la sua guida scorrevole e pulita.  &nbsp;  Yamaha M1 2004, Rossi e la moto entrata nella leggenda     Nel 2003 la Yamaha comp&igrave; una rivoluzione tecnica ed ideologica cercando di riportarsi ai vertici del motomondiale dopo svariati anni di scarsi risultati, in cui, la diretta e storica rivale, la Honda, stava dominando in lungo ed in largo. Dal 1992 (anno in cui Wayne Rainey regal&ograve; l&#39;ultimo titolo iridato della &quot;500&quot; alla casa di Iwata) al 2003, la moto giapponese non ottenne risultati di rilievo, per la quale dovette aspettare il 2004 con l&#39;arrivo di Valentino Rossi e un&#39;evoluzione del metodo di lavoro che negli ultimi anni stava diventando un punto debole. La M1 prese il posto della Yamaha YZR 500 e inizi&ograve; ad essere sviluppata nel 2001 da Max Biaggi e John Kocinski, ma fu solo con l&#39;arrivo del &quot;46&quot; che la moto riusc&igrave; a vincere formando un binomio diventato leggenda per l&#39;epicit&agrave; delle vittorie ottenute. Sin dalla prima stagione, la M1 ha presentato un Dna che tutt&#39;ora la contraddistingue, puntando sul telaio e sulla manegevolezza, una ciclistica che compensa un motore (4 cilindri in linea) che non &egrave; mai stato particolarmente potente. La M1 del 2004 invert&igrave; il trend delle stagioni precedenti della Yamaha, formando la base per gli anni avvenire, che ha poi prodotto un totale di 8 titoli piloti: 4 con Valentino Rossi, 3 con Jorge Lorenzo e 1 con Fabio Quartararo; 5 titoli costruttori e 122 vittorie: 56 con Rossi, 44 con Lorenzo, 8 con Quartararo e Vinales, 3 con Morbidelli, 2 con Biaggi e 1 con Spies.&nbsp;  &nbsp;  Con Spies e Razgatliogliu i titoli in Superbike     Il 2021 &egrave; stato l&#39;anno della casa di Iwata, vittoriosa sia nel motomondiale con Fabio Quartararo sia nelle derivate di serie con Toprak Razgatlioglu, che ha regalato il secondo titolo mondiale Superbike alla Yamaha, che aveva vinto solo un&#39;altra volta, nel 2009 con Ben Spies con la YZR-R1. La moto, figlia soprattutto negli ultimi anni di una continua condivisione di dati e sviluppo con la &quot;sorella&quot; tra i prototipi, la YZR-R1, &egrave; riuscita ha interrompere il dominio di Jonathan Rea e la Kawasaki, padroni incontrastati degli ultimi 6 anni. La YZF-R1 2020 e 2021 si ispira come detto alla M1, ad esempio in alcune parti aereodinamiche come il cupolino, negli ultimi due anni maggiormente arrotondato, ma anche nella ciclistica, da sempre punto di forza di Yamaha, e nell&#39;elettronica, ormai sempre pi&ugrave; fattore imprescindibile tanto nelle derivate di serie quanto nei prototipi.  &nbsp;     La R6, regina incotrastata nella Supersport e vincente anche nel Tourist Trophy     La YZF-R6 &egrave; senz&#39;altro una delle moto pi&ugrave; iconiche e cult tra i modelli Yamaha, nonch&egrave; una delle pi&ugrave; vendute. Lanciata sul mercato per la prima volta nel 1999, sin da subito &egrave; riuscita a cogliere risultati importanti nelle corse, specialmente in Supersport 600 dove &egrave; tra le moto pi&ugrave; vincenti della categoria dall&#39;alto dei suoi 9 titoli mondiali piloti; il primo nel 2000 con Jorg Teuchert seguito poi da Cal Crutchlow nel 2009, Chaz Davies nel 2011, Sam Lowes nel 2013 e dal 2017 al 2021 con Mahias, Cortese, Krummenacher, Locatelli e Aegerter. Da evidenziare anche la vittoria nel 2017 della categoria Supersport nel prestigioso Tourist Trophy, con Michael Dunlop.  &nbsp;  Regina del cross con Everts e Cairoli     La fortuna di una casa &egrave; prodotta sia dal livello tecnico della moto ma anche dalla caratura dei piloti, e nel motocross la Yamaha &egrave; stata, in questo senso, privilegiata, avendo avuto in sella alla propria moto i due piloti forse pi&ugrave; forti e rappresentativi: Antonio Cairoli e Stefan Everts. In sella alla YZF 450 il pilota italiano ha vinto il primo titolo in MXGP nel 2009 prima di passare in KTM, mentre il campione belga ha trionfato 4 volte consecutivamente dal 2003 al 2006. La moto giapponese &egrave; stata protagonista del cross per tanti anni, ma l&#39;ultimo titolo risale al 2015 con Febvre, nel 2022 tenter&agrave; di riprendersi lo scettro con Seewer, Coldenhoff e Renaux.  &nbsp;  La Dakar e il Super T&eacute;n&eacute;r&eacute;     La XTZ (750 e 850) fu progettata con lo scopo di vincere la Dakar , obiettivo raggiunto per ben 6 volte in 7 anni, dal 1991 al 1998, nel 1996 con Edi Orioli in sella, primo italiano di sempre a vincere la competizione. La moto &egrave; meglio conosciuta come &quot;Super T&eacute;n&eacute;r&eacute;&quot;, prendendo il nome dalla tappa del deserto T&eacute;n&eacute;r&eacute; dell&#39;ex Parigi-Dakar del nord-est del Niger e fu inoltre, la risposta della casa di Iwata all&#39;Africa Twin della Honda. Le ripetute vittorie nella Dakar generarono un forte impulso anche sul mercato, dove il T&eacute;n&eacute;r&eacute; ebbe un grande successo, divenendo una moto da gran turismo per lunghi viaggi, non perdendo l&#39;attitudine al fuoristrada.  &nbsp;  L&#39;enduro e la Yamaha WR     Nel mondo dell&#39;Enduro, la Yamaha si &egrave; messa in evidenza con la WR, in particolare con la 450F, che ciclisticamente ha condiviso molti componenti tecnici e di design con la YZ400F del cross. Una moto che ha fatto epoca sia nelle corse, con la vittoria nel 2004 del titolo mondiale di Stefan Merriman, sia nel mercato, tra le scelte preferite tra i giovani rider che si approcciano al mondo del fuoristrada.  MotoGP, Rossi ammette: &quot;Avevo gi&agrave; pensato al ritiro nel 2019&quot; 

La casa dei tre diapason vanta una storia autorevole nelle competizioni, avendo corso e vinto in tutti i campionati in cui ha partecipato, dal fuoristrada fino alle gare su asfalto. Ecco le 10 moto pi&ugrave; iconiche della sua storia

61 risultati per 'Parigi-Dakar'